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giovedì 27 settembre 2012

CONVALIDA DELLE DIMISSIONI ANCHE NEL COLDASS: IL CASO DEI DOMESTICI


La disciplina ex. art. 04.17°comma ss. l. 92/2012 determina alcuni problemi di adattamento in materia di lavoro domestico.
A parte l'incongruità intrinseca di estendere la disciplina ad un'area (come il lavoro domestico) già coperto da "libera recedibilità", si pone uno specifico dubbio in punto di procedura. Come noto, stante il comma 17 citato, in caso di dimissioni o risoluzione consensuale, occorre procedere alla convalida delle dimissioni/risoluzione avanti la DPL, ovvero con sottoscrizione della ricevuta di cessazione del rapporto di lavoro.
Normalmente, nella pubblicistica, si parla, per questa modalità di gestione semplificata, di sottoscrizione della ricevuta SARE. E che ne è del lavoro domestico, che non conosce la procedura SARE, ma COLDASS?
Occorre ricostruire il filo della normativa.
Partiamo da un dato. L'art. 04.17°comma l. 92/2012 dispone:
 
"l'efficacia delle dimissioni o della risoluzione consensuale ... è sospensivamente condizionata alla sottoscrizione di apposita dichiarazione della Lavoratrice o del Lavoratore apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro di cui all'art. 21 l. 264/49 e successive modificazioni".
 
L'applicazione di questa normativa per i domestici è assicurata dalla legge 339/1958, che all'art. 02 disciplinava in modo speciale la procedura di avviamento al lavoro con la chiamata diretta, ma lasciava intendere la piena vigenza delle altre disposizioni della l. 264/1949 per le altre fattispecie, che, quindi, resta come indicazione di normativa applicabile di default, in assenza di altre indicazioni.
Si consideri, al riguardo, che, nel prevedere la conferma delle dimissioni sulla ricevuta, la legge Monti-Fornero non discrimina la circostanza che le comunicazioni de quibus siano effettuate a favore del CPI, o dell'INPS, quanto in conformità alla l. 264/49.
Nè ci sarebbe pregio ad argomentare diversamente, dato che la legge 92/2012 non ha previsto speciali disposizioni per la convalida delle dimissioni per i domestici soggetti alla procedura COLDASS.
Ecco, perchè riteniamo che nel settore domestico, le dimissioni/risoluzioni consensuali vadano convalidate avanti la DPL ovvero con la sottoscrizione del Lavoratore in calce alla comunicazione COLDASS/INPS di cessazione del rapporto di lavoro.

Dr. Giorgio Frabetti
Consulente d'Azienda in Ferrara

GUIDA INTELLIGENTE AL CODICE DISCIPLINARE AZIENDALE 01)/SE IL CODICE DISCIPLINARE E' ANTI-TACCHEGGIO ...


Non è infrequente che le Aziende si rivolgano al Consulente del Lavoro perchè li aiuti a controllare il Personale Dipendente, che viene (a torto o a ragione) sospettato di furti.
Cosa può fare il Consulente in questi casi? Raccomandare un uso accorto del potere disciplinare.
Nel sistema di controlli interni all'Azienda del personale dipendente, l'esercizio del potere disciplinare è basilare e deve essere massimamente in efficienza, per realizzare la necessaria deterrenza, specie per le condotte più gravi.
Ogni CCNL dispone di norme disciplinari, che possono ben essere riprese e recepite in Azienda.
Ma ciò può non bastare.
Innanzitutto, le previsioni disciplinari del CCNL (specie in tema di licenziamento) sono enormemente ampie.
Consideriamo innanzitutto che, nel sistema del CCNL, l'infrazione può essere ritagliata "a condotta vincolata" (es. le assenze ingiustificate superiori a 03 gg.) ovvero "ad evento" ("qualsiasi violazione patrimoniale dolosa o colposa che integri il rapporto fiduciario del Dipendente verso l'Azienda") e ciò influenza in modo decisivo il regime probatorio delle procedure disciplinari: in un caso, semplificandolo enormemente (si veda l'esempio dell'assenza ingiustificata), in altro complicandolo non poco!
Nè appare incoraggiante la circostanza che, a differenza delle altre sanzioni conservative (sospensione, multa etc., improntate a tassatività), il licenziamento possa essere irrogato aldilà delle previsioni del CCNL anche per violazione degli obblighi di legge (es. Codice Penale) e degli obblighi fondamentali di diligenza-fedeltà che incombono sul Dipendente, in forza degli artt. 2104-2105 del Codice Civile. Addirittura, in questi casi, a prescindere dall'affissione dello stesso Codice Disciplinare.
Tale ampiezza di poteri può rivelarsi più facilmente un boomerang per l'Azienda nelle finalità specifiche di controllo e di auto-tutela che si ripone.
Onde ovviare a queste problematiche, basterà ricordare, in prima battuta, all'Azienda di darsi un obiettivo e una direzione di intervento: vuole ad esempio seguire una policy interna improntata a "tolleranza zero" verso i furti perchè (ad esempio) "sta perdendo la faccia" davanti ai Dipendenti per alcuni episodi di furto? Ove valuti insufficienti o carenti le disposizioni del CCNL (applicabili di default), l'Azienda deve porsi seriamente il problema di intervenire (nei margini consentiti dalla legge) per introdurre disposizioni ad hoc.
Naturalmente, queste sono solo piste di credibile riflessione che vanno più ampiamente sviluppate caso per caso.
Una cosa deve essere chiara: non creda l'Azienda che le norme (disciplinari) siano a priori tarate per servire le sue specifiche esigenze di controllo e disciplina del personale.
Innanzitutto, le norme lavoristiche sono norme del tutto "astratte" e, pena la loro inattuazione, non possono che calarsi nelle singole realtà e peculiarità aziendali: ad esempio, è evidente che il furto di una saponetta assume diverso valore ai fini disciplinari, se è avvenuto in una fabbrica di sapone, nel reparto di un Ipermercato, ovvero nel gabinetto di uno Studio Professionale di Avvocato! Ma soprattutto le norme disciplinari devono essere applicate con un occhio molto attento alla razionalità del sistema di controlli aziendali cui esse sono funzionali!
Alcuni esempi.
In primo luogo, è certamente consigliabile puntellare le norme disciplinari aziendali, in ordine alla problematica certamente più delicata delle tempistiche di contestazione di queste condotte, che di solito richiedono complessi e laboriosi accertamenti, specie tramite personale di vigilanza o investigativo. Ecco, allora, che appare quantomai opportuno "arricchire" il Codice Disciplinare, inserendo disposizioni specifiche ad hoc (tratte dalla giurisprudenza): ad esempio, stabilendo tempistiche più ampie di contestazioni per furto etc. quando manchi la flagranza del fatto e si siano resi necessari accertamenti.
Quanto alla casistica, può essere opportuno dettagliare la casistica di furti ritenuta più grave (anche se ai fini del licenziamento disciplinare non vale lo stesso regime di tassatività previsto dall'art. 07 St.lav. per le sanzioni conservative; anche se per i licenziamenti disciplinari non vale un criterio del nullum crimen, sine lege, che vale, invece, per i reati!).
Si consideri, a questo riguardo, la particolare utilità di una clausola di questo tipo: "il licenziamento disciplinare si applica in ogni caso di furto, anche di modico valore, perchè il furto, in sè stesso, integra grave violazione del rapporto fiduciario Azienda-Dipendente". A prescindere da cavilli giuridici sul possibile uso giudiziario di questa formula, non se ne può sottovalutare l'utilità a titolo di "normalità organizzativa", per consolidare una consuetudine repressiva efficace, tale cioè da influire (in conformità ai canoni giurisprudenziali) su una valutazione di maggior rigore del furto del Dipendente. Viceversa, dove tale disposizione mancasse, e dove il quadro organizzativo sul punto non fosse tanto chiaro, la repressione dei furti potrebbe incontrare maggiori ostacoli ed essere più inefficace.
E con ciò, siamo arrivati al secondo tornante di questa riflessione.
Per irrogare efficacemente un licenziamento disciplinare, non basta un Codice Disciplinare ben confezionato, non basta che i fatti contestati siano debitamente provati.
E' proprio la costante giurisprudenza di Cassazione addirittura a imporre una specifica "cultura del controllo": in altre parole, l'Azienda che vuole licenziare in via disciplinare, dovrà provare anche di aver provveduto a porre in essere un' adeguata prassi, si direbbe una consuetudine calibrata in punto di controlli, di richiami per impedire, anche in passato, i fatti avvenuti (qual'è la ratio dell'art. 07 l. 300/1970 in punto di "meritevolezza" e "proporzionalità" della sanzione disciplinare se non questa e il favor verso le sanzioni cd conservative?).
La giurisprudenza, in altre parole, carica sull'Azienda che intenda licenziare l'onere della mancata attivazione di un sistema di controllo consolidato, organizzato e coerente.
La "Logica organizzativa" usualmente richiesta nel D.lgs. 231/01 impregna di sè anche le procedure di licenziamento disciplinare: ma Aziende e Consulenti del lavoro non lo sanno! Lo sa però la giurisprudenza di Cassazione (2013/2012), che per questi casi ha provveduto a codificare il cd "criterio prognostico".
Pare semplice provare un licenziamento disciplinare: quanto parrebbe scontato per l'Azienda asserire l'impossibilità/inopportunità di fare affidamento sul Dipendente in futuro! Eppure, a pensarci bene, tali valutazioni sono complesse ed elaborate!
Ci vuol poco, infatti, a comprendere come aderendo alla citata "proiezione prognostica" in punto di licenziamento disciplinare non sia sufficiente allegare un fatto accaduto (come nella stragrande maggioranza delle procedure disciplinari, usualmente tarate su un'istruttoria avente per base fatti abbastanza elementari, es. assenza ingiustificata). Viceversa, occorre verificare se il fatto sia di tale gravità da rompere la "continuità funzionale-materiale" (GHERA), in cui consiste il rapporto di lavoro subordinato. Un giudizio che contempera sia il ... passato, sia il ... futuro!
A questi fini, quali "indici pronostici", la Magistratura suole richiamare: la globale indole negligente del lavoratore, l'intensità dell'elemento intenzionale, il tipo di mansioni affidate e l'affidamento che su di essa può ragionevolmente riporre l'Azienda etc.
Per rendersi conto della gravità dell'onere probatorio che viene fatto incombere sul Datore, basterà ricordare il caso di una Banca che si è trovata a subìre l'annullamento del licenziamento disciplinare di una Dipendente, che aveva sì posto in essere aperture di credito temerarie, ma facendo applicazione di disposizioni aziendali! Se in Azienda c'è una consuetudine che vira alla disonestà, il Datore non può cacciare il Dipendente disonesto!
Di qui, la stessa condotta di furto può assumere valenza diversa ai fini disciplinari/di controllo, laddove il Dipendente abbia ad esempio asportato la merce, ma lo abbia fatto facendo affidamento ad esempio su una consuetudine aziendale che riconosce generose regalìe e concessioni in uso privato delle merci a favore del Personale.
Dopo tutte queste considerazioni, non ci vuole molto a capire, che, se la stessa Azienda adotta non solo una certa policy repressiva, ma anche una certa prassi di controlli coerenti, essa può ben esigere il maggior rigore desiderato in punto di repressione dei furti.
A fare la differenza, nei licenziamenti disciplinari, è l'efficienza dei controlli: anche se Aziende e Consulenti non se ne accorgono!
Non può essere, quindi, ritenuto un caso, se le vertenze più importanti in ambito lavoristico, quelle che sfociano nei processi che lasciano il segno siano proprio quelle derivanti da licenziamenti disciplinari: a questo si arriva, anche perchè manca nelle Aziende e Consulenti, specie di Piccole-Medie Imprese, una sana e "scientifica" cultura del controllo e delle prassi organizzative che ne conseguono (nei Ns. imprenditori si ritiene che i "modelli organizzativi" riguardino solo i Papaveri dell'Industria e della Finanza, non i piccoli). Niente di più facile, allora, per Avvocati, Sindacalisti insinuarsi nelle maglie di un potere disciplinare improvvisato, pieno delle lacune, tipiche di sistemi semi-patriarcali e familistici di gestione dei rapporti di produzione. In tutto questo, vince l'Azienda che, anche in queste pur piccole e ordinarie vicende, sa rendersi attiva e protagonista, contro facilonerie e pressapochismi.

Dr. Giorgio Frabetti
Consulente d'Azienda in Ferrara

martedì 25 settembre 2012

LE FERIE E LA CIG


Una breve nota relativamente all'Interpello del Ministero del Lavoro nr. 19/2011, il quale ha introdotto chiarimenti sulle modalità di godimento delle ferie durante il periodo di CIG.
Il quesito sorgeva in relazione alla facoltà prevista dalla legge per i cd "ammortizzatori in deroga" di accesso immediato al trattamento; accesso che, in ipotesi, può in qualche modo essere "rallentato" dall'eventuale smaltimento dell'arretrato feriale, già maturate alla data di richiesta della CIG stessa
Richiamando la Circolare 08/2005, il Ministero ricorda che, in analogia con altri eventi sospensivi, come la malattia, ad esempio, le ferie (sia maturate, sia quelle infra-annuali in corso di maturazione) vanno godute dal Lavoratore al termine dell'evento sospensivo. Pertanto, il Ministero ritiene che debba ritenersi sospeso anche l'obbligo relativo al versamento della contribuzione INPS sull'indennità per ferie non godute, per lo stesso periodo dell'evento interruttivo.
L'INPS, però, secondo il Ministero, deve attivarsi per contrastare eventuali abusi e deve riservarsi un controllo di congruità organizzativa, distinguendo il caso di CIG a "zero ore" da CIG a "orario ridotto".
Al riguardo, deve ritenersi meno "credibile" la sospensione delle ferie in caso di "riduzione d'orario", per l'intrinseca utilità che l'istituto riveste per "rarefare" l'orario e il ritmo di lavoro del Personale. Nessuna riserva, invece, pare fare insorgere la sospensione delle ferie in caso di CIG a "zero ore" (salvo l'ovvia riserva che l'azzeramento orario sia ... reale!).

Dr. Giorgio Frabetti
Consulente d'Azienda in Ferrara

lunedì 24 settembre 2012

GOMME TERMICHE PER LA CIRCOLAZIONE INVERNALE: UN OBBLIGO DEL PRESTATORE DIPENDENTE?


L'Interpello Min. Lav. nr. 15/2012 tratta, tra i vari, un caso che sta acquistando sempre maggiore rilevanza applicativa: l'eventualità cioè che, in caso di neve, il Lavoratore non riesca a recarsi sul posto di lavoro, per carenze di "gomme termiche" prescritte dalle Autorità competenti per la circolazione.
L'Interpello esclude che questa circostanza integri causa di impossibilità di svolgimento della prestazione, ma non risolve un aspetto rilevante per la Ns. piccola pratica d'ufficio: quali siano le conseguenze di questa inosservanza amministrativa sul piano del rapporto di lavoro: in particolare, se sia passibile di azione disciplinare.
In realtà, non è possibile declinare trattamenti uniformi: i riflessi negativi sul rapporto di lavoro di tale inosservanza variano, infatti, necessariamente in relazione alle concrete attività svolte e alle circostanze del caso. Se tale inosservanza per un Autotrasportatore dipendente è irrilevante perchè vi deve provvedere direttamente l'Azienda, per un Impiegato che svolga mansioni "mobili" con la propria auto i riflessi sulla produzione sono più pesanti, mentre tale mancanza per un Impiegato di Studi Professionali sembra valere solo in via subordinata alla verifica concreta del danno subito dal Datore, in applicazione del noto canone della "proporzionalità" etc. codificati dall'art. 07 l. 300/1970 e recepiti in tutti i CCNL. Criteri che evidentemente sarebbero tutti e contemporaneamente violati se si ipotizzasse la possibilità di colpire sempre e in ogni caso il Dipendente con sanzione disciplinare in questi casi.
Senza considerare che sulla circostanza possono avere incidenza altre circostanze: l'eventualità che per la stessa percorrenza sia disponibile un percorso ferroviario o BUS.
In ogni caso, data comunque per scontata la difficoltà negli spostamenti che in queste circostanze si determina, e ammesso altresì che la semplice "difficoltà" (come precisa l'Interpello) non equivale ad "impossibilità" della prestazione di lavoro, siamo a ritenere che il Lavoratore, in tali circostanze, se non riesce a recarsi al lavoro, e non gli sia stata fatta espressa richiesta ("consegna") di dotarsi dei necessari dispositivi anti-neve versi in una fattispecie di "assenza giustificata", trattabile con ROL etc.
Salvi naturalmente i casi in cui tale assenza palesi finalità ostruzionistiche o "di sfida", che comunque il Datore avrà cura di provare accuratissimamente.

Dr. Giorgio Frabetti
Consulente d'Azienda in Ferrara

sabato 22 settembre 2012

LA SICUREZZA DEL LAVORO DOMESTICO IN CONDOMINIO


Una breve nota tesa a fare il punto su una fattispecie di notevole rilevanza pratica nella gestione dei rapporti di lavoro per pulizie etc. nell'ambito del settore Condomini-Proprietari di Fabbricati.
Molto frequente cioè è il caso che il lavoratore domestico cada per essersi sporto da scale dotate di parapetti "non a norma".
La fattispecie è stata oggetto di una recente sentenza della Cassazione Penale (22239/2011), che ha riconosciuto la responsabilità dell'Amministratore del Condominio.
Sia la sentenza, sia il commento (Dr. Dovere, Guida al diritto, num. 40/2011) che ne è stato fatto, però, non appaiono soddisfacienti, perchè di fatto omettono di considerare i peculiari problemi di adattamento tra normativa di Sicurezza e Condominio.
Si badi, i problemi non sono solo e non sono tanti rilevanti in relazione al potere di deliberazione: l'assunzione di un addetto alle pulizie è gestione finanziariamente poco impegnativa, non condiziona i diritti proprietari dei Condomini, e, pur in assenza di delibere, non è complesso, nella generalità dei casi, riconstruirne una "deliberazione implicita", per fatto concludente per l'evidente utilità che il servizio riveste per la conservazione dell'immobile. Per questi motivi, agli effetti pratici, non sussistono gravi motivi per disattendere l'indicazione nascente dalla Circ. Min. Lav. nr. 28/1997, che ravvisa nell'Amministratore pro tempore non solo il Datore di Lavoro sostanziale, ma anche il più naturale depositario degli obblighi di sicurezza.
Tale ricostruzione mostra però visibilmente la corda quando si tratti di disaminare i termini degli obblighi di Sicurezza dell'Amministratore, molto meno definiti di quanto appaia in apparenza. In apparenza, infatti, la questione parrebbe scontata: individuato nell'Amministratore il Datore di Lavoro, parrebbe automatico (e conforme alla Circolare 28 citata) rinvenire in questi il naturale "delegato alla sicurezza" su cui incombono tutti gli obblighi accessori di conformazione del rapporto di lavoro ai criteri di sicurezza stabiliti dalle leggi vigenti (art. 2087 del Codice Civile). Senonchè a questo livello, prendono rilievo le obiezioni della dottrina che ravvisano, stante la speciale ripartizione di compitenze all'interno del Condominio tra Amministratore-Assemblea di Condominio, l'impossibilità di assimilare l'Amministratore ai normali requisiti del Datore-garante della Sicurezza. Questi, solitamente, è colui che non solo è in grado di impartire gli ordini al personale, ma è anche colui che è responsabile della decisione di spesa; colui il quale, cioè, se si ravvisa la necessità di conformare "a norma" un impianto, è in grado di operare materialmente e finanziariamente.
Non così l'Amministratore di Condominio.
Il fatto è che per il caso specifico, la "messa a norma" (art. 26 DPR 547/55) del parapetto delle scale è decisione di "manutenzione" che l'art. 1124 del Codice Civile finanziariamente determina oneri di spesa divisi tra condomini e i proprietari dei pianerottoli e delle porzioni di piani. Queste spese necessitano di delibera, salvi (marginali) casi "d'urgenza" (che comunque non ricorrono nella casistica qui considerata). Quindi, se l'Amministratore assume un lavoratore domestico con delega dei Condomini, ma questi non si siano attivati, ne hanno delegato l'Amministratore a "mettere a norma" i parapetti delle scale, l'Amministratore si troverà nell'impossibilità di garantire questa essenziale condizione di Sicurezza del rapporto di lavoro. Non serve descrivere le complicazioni in merito alle ripartizioni di responsabilità incombenti in caso di infortunio: se non è realistico ritenere esonerato l'Amministratore (il quale deve comunque aver speso tutta la sua diligenza per attivare il Condominio su questo specifico punto e non limitarsi a dire "non era mia competenza"), chi paga in misura maggiore sono i Proprietari. Con ciò, frustrando e non poco la comodità della delega gestoria all'Amministratore, il quale non riesce in questo caso a fungere da "parafulmine", come usualmente ci si aspetta.
E' evidente che quando i Condomini dovessero decidere la stipula di rapporti di lavoro per pulizie etc. devono tenere in mente queste "complessità": al momento, solo la "diligenza gestionale" è il criterio utile per "venire fuori" da simili complicazioni gestionali. Prima di deliberare, quindi, l'assunzione di personale di Pulizia (anche tramite Cooperative, imprese di servizi), è essenziale che il Condominio verifichi se e come è in grado di assumersi i rischi connessi, e se esiste (nelle deliberazioni, nei Verbali) una sufficiente consapevolezza e decisione sulle incombenze che in questi casi competono.
Ricordiamo che la stessa situazione si verificherebbe per infortuni occorsi in caso di rapporti "domestici" ma stipulati per "amicizia" (ad esempio, con un parente dell'Amministratore), quindi per rapporti certamente gratuiti.
In attesa di riforme o altre manutenzioni giuridiche della fattispecie (vedi riforma dei Condomini, approvata dal Senato), questo è lo stato dell'arte.

Francesco Landi
Consulente del Lavoro in Ferrara

APPRENDISTATO: IL PREAVVISO AL TERMINE DEL PERIODO FORMATIVO

Caso:
Uno Studio Professionale ha in essere un rapporto con una Dipendente apprendista destinato alla cessazione all'11/01/2013. Il Titolare non vuole proseguire il rapporto. Chiede come comportarsi in caso di licenziamento e quale preavviso dare alla Dipendente.


Risposta:
In via preliminare, è essenziale precisare che,  specie con la nuova disciplina (D.lgs. 167/2011 e l. 92/2012), una cosa è la cessazione del periodo formativo dell'apprendistato, una cosa la cessazione del rapporto di lavoro. Tale partizione la si deduce agevolmente dall'art. 01.16°comma TU app. (come modificato dall'art.01.15°comma lett. b) legge 92/2012) secondo cui, cessato il periodo di formazione, decorre il preavviso.
Quindi, fissata la cessazione dell'apprendista del Professionista al 11/01/2012, il preavviso decorrerà dal 16/01 fino al 04/02/2013 (20 gg. di calendario da CCNL).
E che ne è del periodo intermedio tra la cessazione della formazione e il dies a quo del preavviso secondo il CCNL? Pochi dubbi che si resti nell'ambito della disciplina dell'apprendistato, senza possibilità di configurare un periodo spurio a rischio di trasformazione in lavoro subordinato. Essenziale che il Datore di Lavoro preavverta con adeguato anticipo e per iscritto l'intenzione di non "qualificare" l'apprendista. 
Ricordiamo che, in analogia con la vecchia previsione dell'art. 19 l. 25/1955, nell'apprendistato la lettera di preavviso di licenziamento, riveste un ruolo essenziale per "bloccare" la qualificazione. In sua assenza, dato che il termine dell'apprendistato non costituisce termine finale del rapporto (e quindi "licenza" di licenziamento), la prosecuzione del rapporto avviene a titolo di lavoro subordinato a tempo indeterminato.


IL RIPOSO GIORNALIERO DEI DOMESTICI


Una breve nota tesa a evidenziare una possibile fonte di equivoci, relativamente alla disciplina del riposo giornaliero nell'ambito del settore Colf-Badanti. Il complesso di regole, infatti, è solo apparentemente similare, ma presenta profonde differenze.
La disposizione ex. art. 14.4°comma CCNL va cioè contestualizzato in relazione all'art. 07, all'art. 17 del D.lgs. 66/2003 e alla Circolare Min. Lav. 08/2005.
Ciò premesso, consideriamo più da vicino cosa prevede la norma di cui si tratta.
Secondo la norma citata, il lavoratore convivente ha diritto ad un riposo di almeno 11 ore consecutive nell'arco della stessa giornata e, qualora il suo orario giornaliero non sia interamente collocato tra le ore 6.00 e le ore 14.00 oppure tra le ore 14.00 e le ore 22.00, ad un riposo intermedio non retribuito, normalmente nelle ore pomeridiane, non inferiore alle 2 ore giornaliere di effettivo riposo. È consentito il recupero consensuale e a regime normale di eventuali ore non lavorate, in ragione di non più di 2 ore giornaliere.
Ai sensi dell'art. 17 D.lgs. 66/2003, il settore del lavoro familiare deve considerarsi esonerato dall'osservanza dalla disciplina dell'art. 07.
Ciò significa che la disciplina dei riposi di settore, per quanto modellata su quella del D.lgs. citato, non determina le responsabilità amministrative sanzionatorie in caso di violazioni.
Diventa, allora, un mero problema di contrattualistica modellare i riposi giornalieri del Domestico sul regime delle "11 ore consecutive". Così, questa linea è stata seguita dal CCNL Colf per i lavoratori familiari conviventi, ma non per i non conviventi.
A questo punto, si affaccia anzitutto un problema di gerarchia delle fonti, ovvero tra contrattazione individuale e collettiva.
Per i lavoratori conviventi, tale disciplina esclude articolazioni diverse tra orario di lavoro e riposi giornalieri: in assoluta omologia a quanto si verifica nella generalità dei settori, ma in forza del CCNL (non della legge) e in forza del principio (art. 2078 del Codice Civile) secondo cui la disposizione collettiva prevale su quella individuale, se più favorevole.
Viceversa, la mancanza di una disciplina di riferimento per i riposi giornalieri per i lavoratori non conviventi, la conclusione è la seguente.
Complice l'inapplicabilità dell'art. 07 D.lgs. 66/2003, ne deriva automaticamente e senza possibilità di equivoci che la disciplina dell'articolazione dei riposi è rimessa alla contrattazione individuale, come la quasi totale generalità degli istituti relativi all'orario di lavoro nel settore Colf-Badanti.
In realtà, nelle misura in cui si tiene presente la stretta connessione esistente in generale tra riposo giornaliero e garanzia di durata massima dell'orartio giornaliero di lavoro, si comprende ancora meglio il "perchè" di questa scelta di CCNL. Ognuno, infatti, potrebbe obiettare che, venendo meno per i Colf non conviventi il riposo giornaliero viene meno la garanzia di durata massima giornaliera dell'orario, risultando così il Domestico esposto alle più svariate ed arbitrarie articolazioni orarie del Datore di lavoro. In realtà, tali eccezioni non sono fondate: si deve considerare la tecnica speciale con il quale il settore Colf-Badanti regola l'orario di lavoro, fissando già a monte, sia per i lavoratori conviventi, sia per i lavoratori non conviventi limiti orari massimi settimanali e giornalieri. A questo livello, l'istituto del riposo giornaliero perde d'importanza.
A margine, per temperare l'indubbio irrigidimento indotto sull'orario giornaliero per i Colf conviventi il CCNL Colf-Badanti ha altresì previsto una specialissima disciplina dei cd "riposi intermedi" previsti dall'art. 15.04°comma CCNL per i "lavoratori conviventi". Nel caso, cioè, in cui l'orario di lavoro del Domestico sia situato in una fascia compresa tra le ore 6.00 e le ore 14.00, oppure tra le ore 14.00 e le ore 22.00, ad un riposo intermedio non retribuito, normalmente nelle ore pomeridiane, non inferiore alle 2 ore giornaliere di effettivo riposo. Il CCNL opera con una tecnica peculiare, assegnando al Lavoratore una specie di "facoltà alternativa" di determinazione unilaterale (per quanto parziale) dell'orario di lavoro (del tutto inconsueta nel piano del lavoro subordinato, ma coerente alla tradizionale "frazionabilità" del lavoro domestico). Di qui, si spiega l'ultima parte della norma che ammette il "recupero" delle ore non lavorate e della retribuzione così persa nel limite delle stesse 02 ore giornaliere.
Tale facoltà di spezzettamento dell'orario determina una facoltà di deroga all'orario pattuito che comporta omissione della prestazione e carenza di retribuzione.

Francesco Landi
Consulente del Lavoro in Ferrara

giovedì 20 settembre 2012

LEGGE MONTI FORNERO E COMPUTO BASE OCCUPAZIONALE DISABILI-RIEPILOGO

L'art.04 comma 27 l. 92/2012 ha abrogato la previgente norma che escludeva dalla base occupazione di computo ai fini della normativa disabili i lavoratori a termine fino a 09 mesi.
Il DL Sviluppo (art. 46-bis) però (DL 83/2012 conv. in l. 134/2012) ha però disposto che sono esclusi dalla base di calcolo i rapporti a termine inferiori ai 06 mesi.
Ai fini dell'individuazione della basa occupazionale, la Circolare comunque dispone che i lavoratori a termine dovranno essere conteggiati pro-quota: due lavoratori a termine di sei mesi corrispondono ad una unità", dice il Ministero. E tale indicazione (dettata precedentemente all'emendamento del DL Sviluppo) sembra valere tuttora come indicazione "anti-elusiva" della nuova fascia di esenzione.
Ai fini del computo della base occupazionale dell'impresa, la Circolare richiama la vigenza dei criteri generalmente previsti  dettata ad altri fini (ad es. ai fini della disciplina del licenziamento individuale): a questi fini, il Ministero recepisce l'opinione giurisprudenziale consolidata secondo la quale ai fini della base occupazionale non vanno conteggiati i lavoratori a termine in funzione "sostitutiva"; quelli assunti con funzioni "organizzative" e "produttive" sì.
Non risulta emanata altra Circolare che adegua la Circolare 20 cit. ai mutamenti del DL Sviluppo.
Per consultazione, questa le principale base informativa, Circolare Min. Lav. 18/2012, link:   http://www.dplmodena.it/ML18-RML.pdf

Studio CDL Francesco Landi
Consulente del Lavoro in Ferrara

FINTE PARTITE IVA: NIENTE PRESUNZIONE PER PENSIONATI


CASO: 
Dipendente pensionata che ha aperto Partita IVA nel 2011 nel regime dei minimi, con un contratto d'opera con un'Associazione di 01 anno, per seguire amministrazione e informatica.
Nel 2012 ha intrattenuto un rapporto di consulenza con una Ditta per la durata di 04 mesi.
E' coinvolta dalle disposizioni sulle Partite IVA cd "monocommittenti"?
(L'Esperto Risponde, nr. 53/2012-17/09)
 
RISPOSTA (Ns.)
Per prima cosa, occorre precisare che per le Partite IVA in corso al 18/07/2012, le disposizioni iniziano ad applicarsi a partire dal 18/07/2013, per consentirne medio tempore un adattamento.
La Ns. modesta impressione è che le probabilità della suddetta Lavoratrice di invertire efficacemente l'onere della prova siano abbastanza alte. Ma iniziamo con ordine.
Un accurato checklist dell'applicabilità della cd "presunzione di subordinazione" (pur in assenza di criteri definiti in sede ministeriale) deve procedere nei termini che seguono: innanzitutto, occorre verificare il volume di compensi e le competenze spese dalla Collaboratrice: se il volume di compensi ammonta a più di € 18.669 nel 2011 e comporta la spendita di competenze "teoriche" o il possesso di "rilevanti cognizioni-teorico pratiche" anche apprese (queste ultime) con rilevante pratica professionale.
A ns. giudizio, l'esame del requisito reddituale deve ritenersi del tutto superfluo: si consideri, infatti, la ratiodell'esclusione della presunzione di lavoro subordinato risiede nella conclamata volontà legislativa di escludere l'ispezione laddove non sussiste manifestamente alcun elemento per ritenere configurato il "danno retributivo/previdenziale" del Lavoratore in Partita IVA (con ciò legittimando, indirettamente, un uso della contrattualistica "a Partita IVA" di carattere "commutativo" per migliorare la posizione retributiva e contributiva del Lavoratore). In questi termini, pare evidente frusto il requisito degli € 18.669 (1.25 minimale Commercianti INPS), visto e considerato che la sua funzione di stabilire una soglia del possibile "danno previdenziale" è resa assolutamente inutile dalla circostanza che tale Dipendente è pensionata.
Visto e considerato che tale requisito NON PUO' APPLICARSI alla Lavoratrice pensionata, è congruo ritenere che ilcheck list per escludere la presunzione di lavoro subordinato possa consistere nella circostanza che la Dipendente possieda "rilevanti cognizioni teorico-pratiche" acquisite nella pregressa esperienza lavorativa. Circostanza per i pensionati da ritenersi configurata senza possibilità di dubbio, laddove il rapporto di Consulenza inerisca a cognizioni spese dalla Lavoratrice in modo continuativo ed abituale nella carriera lavorativa. Certo, non diremmo la stessa cosa se la Dipendente, andata in pensione come Operaia, abbia iniziato a lavorare come Impiegata (ma anche questo caso è di complessa soluzione), mancandole un tale retroterra: ma nella circostanza descritta da L'Esperto Risponde riteniamo non possano sussistere dubbi (questa conclusione porta acqua al mulino di chi ritiene che i requisiti per escludere la presunzione di subordinazione della Partita IVA -volume di compensi etc.- possano concorrere anche disgiuntamente).
A questo punto, il check della "monocommittenza" perde rilievo.
In ogni caso, per completare l'esame della fattispecie, riteniamo che, anche non aderendo alla soluzione di cui sopra, la probabilità di superare positivamente l'Ispezione sul rapporto libero-professionale sia comunque alta, visto e considerato che il rapporto, almeno per il 2012 ha generato una pluricommittenza. A questo riguardo, non daremmo eccessiva importanza alla partizione 80% (compensi Committente prevalente) e 20% (altro Committente) nei due anni. Si consideri che la legge chiede che i compensi siano riferiti a "centri di imputazioni di interessi" differenti; ed è questo l'elemento dirimente per valutare la non genuinità delle Partite IVA. Ratio della legge è colpire le pluricommittenze fasulle, espresse tramite fatturazioni di comodo, a soggetti apparentemente differenti, in realtà riconducibili allo stesso Datore di lavoro. E' la simulazione la ratio di queste restrizioni ed è evidente che gli importi numerici debbano essere intesi cum granu salis, con occhio attento ad adattarne la ricaduta nei casi concreti. Sennò diventerebbe troppo facile per i Datori di Lavoro in mala fede aggirare la norma con fatturazioni sì nelle soglie della legge, ma di comodo! E la normativa è concepita per constare gli abusi non per favorirli!
Con ciò arriviamo alla conclusione che qualunque diversa Committenza, purchè sia riferibile ad un centro di imputazioni di interessi del tutto estraneo alla volontà del Committente "dominante", renda genuina la Partita IVA e determini l'inversione dell'onere della prova a favore della Partita IVA in caso di ispezione.
Certo, può darsi il caso che la seconda Committenza non sia prolungata nel tempo: come comportarsi?
Non è chiaro: al momento parrebbe potersi dire che, secondo il DL Sviluppo, se nei due anni successivi interviene un'altra Committenza, la Partita IVA può continuare ad essere utilizzata, sennò scatta la presunzione.
De jure condendo, il caso rivela l'ennesima grave carenza della disciplina delle cd "finte Partite IVA".
La ratio della disciplina anti-abusi è la tutela della posizione previdenziale del lavoratore (specie giovane), garantendogli un adeguato montante contributivo. Finalità che non è assolutamente congruente con lo status di lavoratore pensionato che tali problematiche non ha.
Al contrario, visto che in sede di revisione parlamentare della riforma è stato dato rilievo alla "funzione commutativa" della Partita IVA, ossia si è tutelato il rapporto ove appaia vantaggioso dal punto di vista del montante previdenziale, non vi è chi non veda come un elementare canone di giustizia e di equità sostanziale dovrebbe essere osservato per i pensionati, rispetto a cui il lavoro in Partita IVA (anche se monocommittente) può risolversi in un'opportuna occasione di integrazione del "montante previdenziale" (specie in vista della cd pensione supplementare), come noto, decurtato dall'introduzione del contributivo pro rata. Urge un adeguamento: es. abbassando la soglia reddituale di esenzione da controlli, es. specificando per i pensionati i requisiti di "professionalità" (es. prevedendo esenzione dai controlli per mansioni in Partita IVA corrispondenti agli ultimi 15-20 anni di servizio).

Dr. Giorgio Frabetti
Consulente d'Azienda in Ferrara

mercoledì 19 settembre 2012

IL PROSPETTO-PRESENZE LUL DEI RIPOSI SETTIMANALI E GIORNALIERI NEL SETTORE PUBBLICI ESERCIZI


In merito alla gestione dei riposi giornalieri e settimanali nel settore Turismo, consideriamo l'esempio di sequenza oraria qui sotto articolata:
 
24/06    25/06  26/06    27/06    28/06    29/06    30/06    01/07    02/07    03/07    04/07    05/07 06/07
 
R          L        L          L           L           L         Ferie    L           L           L         L            L      R
 
Come si sa, il riposo settimanale tipo per il CCNL Turismo si sostanzia in 24 ore consecutive di regola intercorrenti da una mezzanotte all'altra della domenica.
Nel caso, invece, l'Azienda avesse segnato il riposo sì in 24 ore consecutive, ma decorrenti es. dalle 20.00 alle 20.00, occorrerebbe una gestione corretta anche dei riposi giornalieri (11 h consecutive).
Evidentemente, questo comporta che, fruito un riposo settimanale dalle ore 20, 00 del sabato alle ore 20.00 della domenica, non è possibile computare le ore di riposo (20.00-00.00) di sabato a scomputo del riposo settimanale, così da accordare (finito il "turno domenicale") un riposo settimanale 11-4 = 7, ma un riposo settimanale di 11 consecutive, come accade in tutti gli altri giorni di lavoro.
Ciò posto, ci teniamo a precisare che il settore CCNL Turismo è atipico (art. 115 CCNL 19/07/2003), perchè non impone l'adiacenza tra le 24 ore di riposo settimanale consecutive e le 11 ore di riposo giornaliero (sabato o lunedì), così da definire in 35 ore consecutive la "mole di riposi" del week-end (come imposto obbligatoriamente in altri settori dal D.lgs. 66/2003). 
Non c'è nulla di male, comunque, a prevedere nel prospetto effettivo delle presenze queste "35 ore": in questo caso, però. non sono obbligatorie come in altri settori.
Per quanto riguarda, invece, la gestione della periodicità del riposo settimanale secondo la nuova regola del 12+2 (ovvero che la periodicità si misura in 02 gg. di riposo entro una "media" di 14 gg. consecutivi), possiamo dire che la sequenza da Te indicata è coerente, perchè non oltrepassa la media dei 14 gg. medesimi.
I giorni di ferie compresi nell'arco della sequenza non possono, comunque, "assorbire" i riposi settimanali: quindi, nella sequenza che tu ci hai offerto, il giorno di ferie è un giorno di lavoro come un altro che concorre nella media. Se, invece, i riposi settimanali fossero stati fissati oltre la media dei 14, non basterebbe argomentare di avere inserito un giorno di ferie entro la sequenza 12/2, per ritenersi "in pari" con la regola della periodicità del riposo settimanale: in questo caso, l'Azienda resterebbe passibile di sanzione.

Dr. Giorgio Frabetti
Consulente Aziendale in Ferrara

NO CASSA EDILE ALL'AZIENDA METALMECCANICA CHE OPERA NEL CANTIERE IN MODO NON PREVALENTE


Cogliamo l'occasione di segnalarVi che, in forza dell'Interpello nr. 18/2012 (link: http://www.dplmodena.it/interpelli/18-2012.pdf), le Aziende Metalmeccaniche che operino in cantieri edili non sono tenute ad iscriversi alla Cassa Edile se non svolgono attività edile in maniera "prevalente".
L'Interpello come spesso succede lascia le cose "a metà", perchè non enuncia i criteri in base a cui desumersi la "prevalenza"/"non prevalenza" edile.
Nel dubbio, e in mancanza di altri elementi, all'Ufficio Paghe non resta che informare l'Azienda coinvolta da questi problematiche delle regole inerenti all'iscrizione alla Cassa Edile e domandare, ove serva, all'Azienda dichiarazione di manleva che sollevi lo Studio che preside alla gestione del personale da qualsivoglia responsabilità.

Dr. Giorgio Frabetti
Consulente d'Azienda in Ferrara

lunedì 17 settembre 2012

INDENNITA' DI MANCATO PREAVVISO E INCAPIENZA DIPENDENTE DIMISSIONARIO: GESTIONE DEL CEDOLINO PAGA


Come va gestito il cedolino paga in presenza di una voce di indennità di mancato preavviso addebitabile al Lavoratore, che però non trovi capienza nella voci dell'ultima busta paga (tipicamente perchè il preavviso non è calcolato su giorni di retribuzioni, ma su mesi, come frequentemente accade nel CCNL Farmacia).
Data l'evidente incidenza di questa indennità sugli imponibili lordi non solo retributivi effettivamente corrisposti al Dipendente, ma anche fiscali e previdenziali, è evidentemente preciso dovere del Datore di Lavoro-Sostituto d'imposta procedere alla redazione del cedolino del mese di competenza.
In questo caso, si evidenzierà un importo netto negativo, corrispondente al Debito Azienda-Lavoratore.
Una tale procedura è obbligata: nella redazione del cedolini, infatti, si impone un criterio fondamentale di completezza in modo da comprendere ogni informazione necessaria ai fini dello sviluppo reddituale, fiscale, previdenziale ed assicurativo del reddito percepito dal Dipendente. E' lo stesso Ministero a imporre che di queste informazioni il Datore fornisca pieno dettaglio non solo nel LUL (che già costituisce scrittura contabili ai fini fiscali ex. art. 21 DPR 600/1973 delle somme "gestite" tra Datore e Lavoratore), ma anche ai fini dell'elaborazione dei prospetti paga (rif. 39 Vademecum LUL 2008).
Compete, poi, a Datore di Lavoro e Lavoratori mettersi d'accordo, evidentemente per iscritto, per trovare le soluzioni più adeguate per ripianare il debito così emerso. Le soluzioni possono essere varie: ad esempio, se il Lavoratore ha frattanto conseguito una nuova occupazione può valutarsi, d'intesa con il nuovo Datore di Lavoro, di scalare quote del debito dal netto della nuova busta paga.

Dr. Giorgio Frabetti
Consulente d'Azienda in Ferrara

IL "FORO" DELLE PARTITE IVA (FINTE)


Un argomento che non mi risulta trattato (almeno in modo conclamato) a seguito della riforma Monti-Fornero è quello del Foro competente a decidere della controversie di lavoro delle Partite IVA, con riguardo al probabile (e senza tema di catastrofismi aggiungiamo "terrificante") contenzioso che verosimilmente verrà a generarsi.
Una prima "mappatura" appare abbastanza agevole.
Innanzitutto, bisogna considerare l'art. 01.24°comma e la "novella" da esso apportato al D.lgs. 276/2003 (art. 69-bis) che equipara le prestazioni svolte dal Titolare di Partiva IVA "finto" (come da indici ex. l. 92/2012) alle collaborazioni coordinate e continuative.
Riteniamo che questa equiparazione sia sufficiente ad inquadrare le prestazioni succitate nell'ambito del "rito del lavoro" ai fini dell'art. 409.01°comma lett.c), ma soprattutto dell'art. 413 del Codice di Procedura Civile, che radica (al comma 04) tali controversie presso il "domicilio" del Collaboratore (secondo la ratio agevolativa ex. l. 128/92).
Dubbi, invece, sorgono in relazione a quella parte della "novella" (Art. 69-bis.03°comma) dove si determina la non applicabilità della suddetta presunzione di collaborazione coordinata e continuativa (soglia reddituale superiore al minimale, spendita di competenze teoriche etc.).
Che ne è se in tal caso, non coperto da presunzione di "parasubordinazione" e quindi oggetto di iniziativa ex officio del personale ispettivo, il Collaboratore "monocommittente" accusa il lavoro subordinato? A quale foro deve rivolgersi?
La mia personale convinzione è che in questi casi continui ad operare il Foro del domicilio del Collaboratore.
Se è vero, infatti, che tale fattispecie non è coperta dalla disposizione di "assimilazione" alla collaborazione coordinata e continuativa ex art. 69-bis (riferita all'esclusione del "progetto", è però altrettanto vero che è ben poco realistico escludere che il rapporto non venga a configuarsi secondo i crismi della "coordinazione", della "continuità" e dell'apporto "personale".
La cococo uscita dalla porta rientra dalla finestra?
Parrebbe proprio così, stante la circostanza che il lavoro autonomo, per quanto spurio sia, difficilmente troverà evidenza processuale in termini di lavoro subordinato tout court: questo perchè il Collaboratore "finto a Partita IVA" (come l'Agente e il Rappresentante di Commercio) si è frattanto fiscalmente dedotto costi, ha versato imposte come un prestatore di servizi in qualche modo organizzato ed è molto difficile raggiungere in modo "diretto" l'evidenza del lavoro subordinato, almeno per il difetto di uno dei requisiti-base, ossia la totale estraneità del lavoratore, anche "finto autonomo" dall'organizzazione dei fattori produttivi.
E del resto, a queste condizioni diventa molto facile per il Lavoratore radicarsi nel criterio di competenza a lui più favorevole (il Foro del suo domicilio). La prova, abbastanza facile e sommaria, non determina particolari rischi di contestazioni in sede di regolamento della competenza.

Dr. Giorgio Frabetti
Consulente d'Azienda in Ferrara

venerdì 14 settembre 2012

PER UN'ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE A PROVA DI CERTIFICAZIONE


La partecipazione al rischio di impresa dovrà essere scrutinata con maggiore attenzione d'ora in avanti per stabilire la genuinità dei contratti di associazione in partecipazione.
E non solo per la ben nota "stretta" indotta dalla legge 92/2012, ma anche in forza di una presa di posizione della Corte di Cassazione.
Nella sentenza 2496/2012 (21/02), gli Ermellini hanno stabilito che il lavoro subordinato dell'Associato in partecipazione si presume, se dal contesto della contrattualistica non emergono elementi tali da giustificare una partecipazione di essi più intima e intensa al rischio di impresa.
La sentenza ha suscitato sorprese e critiche molto giustificate tra i Commentatori (vedi DE FAZIO, Guida al lavoro, 11/2012), specie nella parte in cui enuncia come criterio dirimente per la genuinità dell'associazione il principio secondo cui l'assenza di partecipazione alle perdite dimostra la non genuinità del rapporto, ossia la mancanza di un requisito essenziale. Si tratta, però, di una distorsione più apparente che sostanziale, che si attenua solo che si contestualizzi la sentenza.
La pronuncia de qua non è un giudizio di puro diritto.
La sentenza invece va intesa come scrutinio di altra sentenza, che solo per questo "medio" arriva all'enunciazione di una regola di diritto: in questi termini, si deve ritenere che la Cassazione abbia ritenuto coerente le conclusioni delle Magistrature inferiori che hanno fatto applicazione (in base ai precedenti di Cass. 24871/2006; App. Venezia 15/10/2011), ai fini dello scrutinio della genuinità dell'associazione in partecipazione, all'argomento dell'id quod plerunque accidit: es. siccome è normale che la Commessa di negozio sia dipendente, questo argomento vale a ritenere provato il lavoro subordinato della Commessa-Associata[1].

In questo senso, deve a mio modesto avviso inquadrarsi quel passaggio della sentenza che liquida brevissimamente la questione utili-perdite: come dire, davanti all'argomento prevalente di subordinazione (id quod plerunque accidit), l'argomento utili-perdite è assorbito (ubi maior, minor cessat!).
In questo senso, allora, la sentenza deve intendersi come
 elaborazione di un criterio tipicamente "pretorio", di ripartizione dell'onere della prova della genuinità del contratto di associazione in partecipazione, il principio secondo cui se la prestazione dell'Associato presenta rilevanti analogie con il lavoro dipendente, il lavoro dipendente si presume e non vale contrapporre altro argomento.
Aldilà delle indubbie lacune e approssimazioni in punta di diritto, deve comunque precisarsi che ai fini operativi alle Aziende non interessa disquisire su norme astratte, quanto verificare se e come da una sentenza pure tanto restrittiva e rigorosa possano trarsi argomenti per invertire l'onere della prova dell'Associazione in partecipazione, precostituendo in questo senso una contrattualistica solida (che per altro può essere certificata, con i benefici tuttora assicurati dall'art. 70 D.lgs. 276/03).
A questo fine, anche per un'eventuale sede di certificazione dell'associazione in partecipazione, devono valorizzarsi i seguenti passaggi della sentenza:

"La partecipazione al rischio d'impresa da parte dell'associato caratterizza la causa tipica dell'associazione in partecipazione.
(...)
l'elemento differenziale tra le due fattispecie risiede essenzialmente nel contesto regolamentare pattizio in cui si inseriscono rispettivamente l'apporto della prestazione lavorativa da parte dell'associato e l'espletamento di analoga prestazione lavorativa da parte di un lavoratore subordinato. Tale accertamento implica necessariamente una valutazione complessiva e comparativa dell'assetto negoziale, quale voluto dalle parti e quale in concreto posto in essere. Ed anzi la possibilità che l'apporto della prestazione lavorativa dell'associato abbia connotazioni in tutto analoghe a quelle dell'espletamento di una prestazione lavorativa in regime di lavoro subordinato comporta che il fulcro dell'indagine si sposta soprattutto sulla verifica dell'autenticità del rapporto di associazione.

A questo riguardo, se la sentenza rende sempre più recessivo (e inutile) il requisito della ripartizione utili-perdite, viceversa valorizza enormemente la contrattualistica e il quadro della distribuzione dei poteri-obblighi lì realizzati.
Inoltre, l'attenzione al rischio di impresa rende la fattispecie di associazione in partecipazione accostabile all'appalto, in particolare all'art. 1655 del Codice Civile e alla giurisprudenza ivi elaborata sugli "indici" per scrutinare la cd "genunità" degli appalti, dalle fattispecie sul limitare del "lavoro subordinato": è questa la cd giurisprudenza del nudus minister.
A questi fini, proseguendo nell'analogia, può dirsi che si possa dare per scontato, in capo all'Associante, un potere di influenza sull'Associato, connaturato nella circostanza che l'associazione (come tutti i contratti di prestazione di servizi, tra cui anche l'appalto) è preordinato alla produzione di un bene o di un servizio, destinato a ricadere nella sfera di utilità soggettiva del Committente medesimo. In questi termini, senza dilungarsi in eccessive "pandette", deve ritenersi decisamente giustificato (e non indiziato di lavoro subordinato) il potere di recesso dell'Associante se modellato ex. art. 1662 del Codice Civile. Recesso cioè consentito qualora l'Associato continui a disattendere in sede di esecuzione dell'opera le condizioni stabilite dal contratto stesso e le regole dell'arte, nonostante sia stato invitato a correggere tali difformità dall'Associante stesso. Un potere, quest'ultimo, consentito quando i difetti siano rimediabili; laddove, invece, lo sviluppo del rapporto ha dato luogo a vizi di per sè non più rimediabili, l'Associante può chiedere, ai sensi dell'art. 1453 del Codice Civile, la risoluzione del contratto immediata per inadempimento e il risarcimento del danno.
Dal sistema delle norme del Codice Civile, poi, e in analogia con la giurisprudenza sugli appalti, si può ritenere che i poteri dell'Associante verso l'appaltatore possono essere:

a) Correttivi, se finalizzati a correggere eventuali irregolarità commesse dall'Associato durante l'esecuzione dei lavori (art. 1662.02°comma C.C.);
b) Modificativi, se comportano vere e proprie modifiche del progetto, o se manca questo, delle modalità realizzative convenute in sede negoziale (art. 1661 C.C.);
c) Integrativi, se completano la fase progettuale senza modificarla, e, quindi, tale da costituire una semplice integrazione di quanto precedentemente disposto (art. 1661 Codice Civile).

Di massima, spulciando la copiosa giurisprudenza che si è sviluppata su tale complessa tematica, si può dire quanto segue:
-E' compatibile con la nozione di appalto la forma di controllo, sorveglianza e istruzione esercitata dall'Associante per assicurarsi l'esecuzione dell'opera secondo patti e regole dell'arte;
-Non è compatibile con la nozione di appalto un controllo che invade il campo dell'organizzazione materiale dell'impresa e quella tecnica del lavoro, salvo giustificazione.

A margine, ricordiamo che l'appaltatore può non conformarsi alle istruzioni dell'Associante nei seguenti casi:
a) Sia possibile adottare tecniche alternative ugualmente valida dal punto di vista professionale;
b) Sia possibile adottare tecniche non concordate preventivamente, ma contemplate negli usi del luogo ove l'opusdebba essere realizzato;
c) L'adeguamento alle disposizioni dell'Associante determina danni a terzi o violazione di norme imperative.

Dr. Giorgio Frabetti
Consulente d'Azienda in Ferrara



In particolare le mansioni degli associati/lavoratori erano consistite essenzialmente nell'apertura e nella chiusura del negozio, nella pulizia e nella tenuta in perfetto ordine del negozio stesso, nella riscossione delle vendite e nella successiva rimessa a fine giornata dei ricavi a mezzo di cassa continua alla società. Si trattava pertanto di una prestazione lavorativa standardizzata. Dalle risultanze di causa era altresì emersa l'osservanza dell'orario di lavoro ben determinato, non contraddetto da una certa autonomia degli associati dell'organizzazione del lavoro. Era altresì emerso un controllo penetrante costante sull'operato degli associati da parte dell'assodante; di qui una soggezione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro tanto che era rimesso alla facoltà insindacabile dell'assodante di non rinnovare il contratto alla scadenza dei sei mesi di validità. Era poi mancato un vero e proprio rendiconto periodico.