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mercoledì 17 aprile 2013

IL NUOVO ARTICOLO 18 ALLA PROVA DEI TRIBUNALI-IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO E PERSECUTORIO-1a PARTE

AVVERTENZA: Questa serie di post nasce come risposta, talora critica, talora adesiva, ad un contributo di analisi uscito nella Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 04, 2012 del Dr. Guido Vidiri, Presidente pro tempore della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione. Il contributo è quantomai rilevante e importante, perchè, aldilà delle speculazioni dottrinali dei "giuristi dotti" (che possono sfiorare l'astrattezza e l'intellettualismo), la testimonianza del Dr. Vidiri ci riporta alla "pratica" processuale del lavoro e ad un punto di vista ineludibile se si vuole comprendere (a titolo previsionale) i più verosimili termini di recepimento della riforma dell'art 18 l. 300/1970 (Aziende con più di 15 Dipendenti) da parte delle Curie e dei Tribunali. Contributo che, aldilà delle carenze e del deficit di esegesi che denunceremo, resta importantissimo e insuperato come  "metodologia"per un'analisi realistica della riforma Monti-Fornero (che normalmente viene messa in ombra da contributi rigorosi dal punto di vista formale ma astratti). A questa modalità di analisi "realistica" ci adatteremo in questo che è la prima serie di post dedicati ad un punto socialmente ed economicamente molto qualificante (ancorchè controverso e discusso da ogni parte) della recente riforma del mercato del lavoro.

In sede strettamente forense, quale sarebbe la più verosimile strategia difensiva che il Lavoratore licenziato può porre in essere contro il proprio Datore di Lavoro? Può fare tre cose, secondo il Dr. Vidiri:

a) Proporre una domanda principale per vedersi riconosciuto il regime di tutela reale del licenziamento invalido e inefficace (reintegra piena);
b) Formulare, in subordine, una richiesta di reintegra (attenuata) per la ingiustificatezza qualificata del licenziamento ex. art. 18. 04°-07° comma;
c) Reclamare la tutela indennitaria.

La riforma, in altre parole, a detta del dr. Vidiri, non concorre a delineare un quadro di semplificazione e razionalizzazione delle tutele giudiziarie: la "rimodulazione" delle tutele, a detta dell'Autore, è alla base di una ancora più accentuata farragine e prolissità e di un più eminente appensantimento dell'Amministrazione della Giustizia. E questo, con buona pace, secondo il Dr. Vidiri degli auspici e degli slogan, che più frequentemente sono stati lanciati, sia in sede governativa e parlamentare, sia in sede di convegnistica sul senso e la ratio della riforma dell'art. 18 L. 300/1970: "nella riforma Monti-Fornero, la tutela indennitaria è generale, la reintegra residuale". Un sistema che, per il dr. Vidiri, per essere davvero disincentivante, avrebbe dovuto comportare una tecnica legislativa capace di circoscrivere con maggiore chiarezza e precisioni gli ambiti della residuale reintegra; difettando quest'ultima, invece, secondo l'Autore, grande è la discrezionalità interpretativa di Avvocati e Magistrati nell'ampliare o restringere alla bisogna i margini della reintegra. Una facoltà di aggiustamento, che non giova alla certezza e alla prevedibilità dei costi del contenzioso, che era il principale obiettivo del Governo Monti per allineare il contenzioso sul licenziamento a standard europei, eliminando quello che era ritenuto una delle principali fonti di scoraggiamento per gli investimenti stranieri.
Sul banco degli imputati di questo deficit riformatore è il comma 01 dell'art. 18, in cui le carenze e le insufficienze tecniche sono alla base del mancato "contenimento" del più scomodo e ingombrante dei rimedi giudiziari contro i licenziamenti illegittimi.
Su questa base, il Dr. Vidiri avvia l'esegesi del comma 01 dell'art. 18, di cui l'Autore rivela la "forza attrattiva" e la "potenzialità espansiva" aldilà delle intenzioni "riduttive" conclamate in sede politico-legislativa.
In tale articolo, la previsione della reintegra piena è stata oggettivamente ampliata a tutti i casi che un tempo erano considerati nulli di diritto comune, e, quindi, ritenuti sottratti: non solo ai casi (canonici) di licenziamento per causa di matrimonio, per genitori in congedo, ma anche per i licenziamenti intimati oralmente e a quelli posti in essere con "frode alla legge" ex. art. 1345 Codice Civile. Ma la vera "pietra dello scandalo", secondo il Dr. Vidiri, è la parte del disposto dove si ammette la reintegra per tutti gli altri casi in cui il licenziamento sia stato comminato "con motivo illecito determinante":

"Nella novella legislativa- dice il Dr. Vidiri- la sanzione della reintegrazione piena [è] espressamente riferita al licenziamento connotato da 'motivo illecito determinante', senza però alcun riferimento all'ulteriore requisito dell' 'esclusività' del motivo illecito. Requisito pacificamente richiesto sino ad oggi dalla giurisprudenza proprio in applicazione dell'art. 1345 del Codice Civile".

Di qui, la pessimistica valutazione del Magistrato:

"Sembra facile ritenere che la lettera della norma ora scrutinata ora scrutinata - nella parte in cui, con espressione non certo ineccepibile sul versante formale, sanziona di diritto la nullità 'il licenziamento determinato da motivo illecito determinante' senza alcuna ulteriore specificazione- induce ad avvalorare un'esegesi contrastante con la giurisprudenza consolidata fondata sul presupposto che il motivo illecito per causare la nullità del licenziamento ex. art. 1345 Codice Civile, deve essere, oltrechè determinante, anche esclusivo".

E a corollario di questo ultra-pessimistico ragionamento, il Ns. conclude con il più classico degli argomenti: "il legislatore NON POTEVA NON SAPERE:

"Ed invero un'opzione ermeneutica contraria a quella sinora costantemente seguita in giurisprudenza può essere accreditata dal significato attribuibile al silenzio del legislatore, il quale non poteva non conoscere (sic!) i dicta giurisprudenziali che, in quanto ripetuti e conformi, sono divenuti diritto vivente". E al riguardo il Ns. cita, Cass. 26 giugno 2009 nr. 15093 e Cass. 14 luglio 2005 nr. 14815.
Come avremo modo di spiegare più avanti, la parte esegetica del ragionamento del Dr. Vidiri è paradossalmente quella che mostra più carenze. In questa sede, per completezza di esposizione e per lumeggiare la lungimiranza del suo approccio ampio e aperto sulla prevedibile "ricaduta pratica" (ossia "forense") dell'art. 18.01°comma, l'Autore dichiara (purtroppo solo in nota):

"Per confortare l'assunto secondo cui la forza attrattiva della reintegrazione possa moltiplicare i casi di licenziamenti nulli per motivo illecito -al fine di ribaltare un indirizzo giurisprudenziale grantico su cui sinora si è fatto pieno affidamento nella regolamentazione del rapporto lavorativo- è sufficiente rimarcare come il nuovo articolo 18 possa indurre ad incentivare il contenzioso attraverso la rivendicazione della declaratoria di nullità del licenziamento anche nei casi in cui il licenziamento è determinato -aldilà del motivo discriminatorio- in misura prevalente o paritaria da condotte suscettibili da sole di configurare una giusta causa o un giustificato motivo oggettivo di recesso, che non hanno garantito al lavoratore la tutela reale" (Cass. 16 febbraio 2011 nr. 3821)".

Un riferimento giurisprudenziale che, fedele all'approccio "pratico" e "forense" proposto dal Dr. Vidiri, diventa quantomai importante ed essenziale per "testare" quanto in concreto (nella prassi giudiziaria) la fattispecie "licenziamento discriminatorio/persecutorio" possa essere realisticamente utilizzata per forzare/ampliare l'area di applicabilità dell'art. 18 l. 300/1970.
Nel caso specifico trattato dalla sentenza, il Lavoratore, dalla posizione decisionale elevata in Azienda, era stato licenziato per aver abusato dei poteri discrezionali affidatigli dall'Azienda in violazione delle Linee Guida Aziendali; a contrasto di questo assunto, in sè grave, il Lavoratore aveva eccepito il carattere discriminatorio per motivi religiosi del licenziamento, impugnando le disposizioni e le prassi aziendali che a suo dire oggettivamente lo discriminavano.

In effetti la sentenza tratta di un caso che costituisce oggettivamente un precedente giudiziario (molto pesante) nella Ns. analisi, in quanto verte su un licenziamento disciplinare che il Lavoratore (nel vigore della precedente normativa) aveva impugnato non solo sotto il profilo dell'art. 07 e 18 l. 300/1970, ma anche sotto il profilo discriminatorio (due fattispecie che oggi ricadono l'una nel comma 04, reintegra attenutata, l'altra nel comma 01, reintegra piena: essendo quest'ultima più favorevole, è evidente la concorrenza dei rimedi!).
Ma la sentenza si lascia oltremodo apprezzare per l'impostazione del "tema" discriminatorio, condotto sulla scia del D.lgs. 216/2003 (successivamente modificato dal D.lgs. 150/2011), contenente recezione delle Direttive UE contro la discriminazione sui luoghi di lavoro, che, come noto, concorre ad arricchire il quadro descrittivo e probatorio della discriminazione sui luoghi di lavoro in generale, la cui ricaduta non può essere ignorata nell'applicazione dei rimedi contro il licenziamento. E non vale chiarire come, alzandosi l'attenzione e l'interesse in sede forense da parte dei Lavoratori sui profili discriminatori del licenziamento, è giocoforza concludere che queste disposizioni, ove presentino spunti utili, saranno utilizzate, con ciò arricchendo e rendendo vieppiù farraginoso il sistema della reintegra, pure riformata.
Ma cominciamo con ordine.
Per valutare la possibile concorrenza/sovrapposizione tra D.lgs. 216/04 e art. 18 occorre valutare il concreto sistema di tutele offerto dal D.lgs. 216/04.
Anzitutto, cosa si intende per discriminazione. L'art. 02.01°comma dispone:

1. Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall'articolo 3, commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:
a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
2. (Omissis)
3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all'articolo 1, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.

Dal punto di vista processuale, peraltro, è previsto dall'art. 28 D.lgs. 150/2011 un "rito sommario", molto simile tra l'altro al nuovo "rito del licenziamento" introdotto dalla l. 92/2012.
Non potendo in questa sede addentrarci oltre, ma limitando l'analisi alle connessioni tra la tutela anti-discriminatoria e quella anti-licenziamento, possiamo dire quanto segue.
Dal punto di vista delle tutele, Innanzitutto, le nomenklature discriminazione diretta/indiretta possono arricchire il quadro di valutazione dei comportamenti discriminatori tali da invalidare un licenziamento così motivato, e possono altresì convogliare nel giudizio sommario anti-discriminatorio un "licenziamento illegittimo".Infatti, il Giudice, in questo specialissimo "rito anti-discriminatorio" può di fatto ordinare la reintegra del lavoratore discriminato (con l'ordinanza inibitoria), ovvero ordinando la revisione delle disposizioni aziendali interne (es. il Codice Disciplinare) affinchè non si prestino ad usi discriminatori. Quindi, in sè la discriminazione può ricevere tutela giurisdizionale.
 Ciò non esclude la reintegra, ma con ciò ci muoviamo su piani e ambiti del tutto differenti: ex D.lgs. 150/2011 ci muoviamo in un ambito che presuppone la continuità del rapporto e la sua "correzione" giudiziaria, ex. art. 18 ci muoviamo viceversa in un ottica di sanzione-risarcimento per l'ingiusta interruzione di un rapporto di durata, che comporta problemi di continuità reddituale-patrimoniale che sono ben noti. L'uno è un provvedimento "costruttivo", l'altro un rimedio ad una situazione già distrutta!
Ma aldilà di questa considerazione, che potrà sembrare metafisica ai più, non può sfuggire la constatazione che la materia "discriminazione" sui luoghi di lavoro conosce già una regolamentazione distinta e privilegiata il D.lgs. 216/2003 e s.m.i., in luogo dell'art. 18.
Sulla carta, ci sono gli elementi per impedire la dilatazione delle tutele anti-discriminatorie nel nuovo art. 18 e, se si intende, come il Dr. Vidiri, offrire spunti per una proficua prospettiva "nomofilattica" del nuovo art. 18 è su questo tema, che dobbiamo insistere. Certo, sono poco note, ma certo in sede di analisi non possiamo farci carico delle lacune conoscitive di Avvocati e Magistrati ...
Il riferimento alla norma europea recepita, mi consente, poi, di compendiare un ultimo, ma decisivo argomento relativo all'art. 18.01°comma.

Mettiamo a confronto art. 18.01°comma l. 300/1970 e art. 01 D.lgs. 216/2003.
Dal punto di vista "descrittivo", non si può utilmente dubitare che l'art. 18.01°comma e l'art. 01 D.lgs. 216/2003 siano in un conclamato rapporto di genus ad speciem: nel licenziamento indotto per "motivo illecito determinante" (quale ne sia l'inquadramento sistematico alla luce del coordinamento con l'art. 1345 del Codice Civile di cui parla il Dr. Vidiri), non ci vuol molto a capire come possa esservi compreso anche la discriminazione così come descritta nel D.lgs. 216/2003. Cambia la superficie: in luogo di una descrizione ampia e incentrata sull' "intenzione dolosa" dell'agente (art. 18.01°comma), abbiamo la descrizione di un quadro in cui le discriminazioni possono derivare da una sequenza amministrativa di atti, prassi decisionali costituenti esercizio del potere (unilaterale) direttivo del Datore di Lavoro ex. art. 2103 del Codice Civile nell'ambito di una realtà organizzata. Ma ciò non basta a trarne variazioni significative (sul carattere discriminatorio delle disposizioni organizzative aziendali vai al Ns. post dedicato: http://costidellavoro.blogspot.it/2013/02/niente-comizi-in-azienda-quando-la.html): il thema probandum è lo stesso, il "dolo di discriminazione" (animus nocendi): per quanto, nel caso del D.lgs. 216/2003, mirato a farne emergere le distorsioni in sede organizzativa, possa "semplificarne" l'emergenza in sede probatoria, ciò non basta a cambiarne la sostanza (degradando ad esempio la discriminazione ad "elemento oggettivo dell'illecito").
Sia l'art. 18.01°comma sia l'art. 01 D.lgs. 216/2003 orientano l'azione anti-discriminatoria nel solco della classica actio doli generalis!
A questo punto, ci vuol poco per comprendere come la dizione utilizzata dal legislatore della riforma nel nuovo art. 18.01°comma ("motivo illecito determinante") sia di fatto un modo (maldestro) di compendiare nella tutela reintegratoria piena ogni altra ipotesi di licenziamento disposto dal Datore di Lavoro con motivi di "dolo" (animus nocendi).
Conforta questa mia ricostruzione (oltre il confronto con l'art. 01 D.lgs. 216/2003) anche la constatazione della debolezza dell'assunto esegetico di Vidiri, il quale sostiene che, complice un'interpretazione letterale del disposto "motivo illecito determinante" senza il riferimento all'"esclusività" di esso, possano annullarsi (con reintegra) tutti i licenziamenti che compendiano insieme motivi leciti (giusta causa, giustificato motivo soggettivo, giustificato motivo oggettivo) e discriminatori.
C'è un argomento di diritto comune che esclude questa conclusione, la constatazione che il "dolo" per annullare un atto (vedi annullabilità degli atti ex. artt. 1442 C.C.) deve essere diretto, determinante e non "incidente".

Tra l'altro è la stessa legge Monti-Fornero ad offrirci la contro-prova di questo assunto, quando assimila alla reintegra attenuata (comma 06) il caso di "licenziamento per giustificato motivo oggettivo" disposto a fronte della "manifesta insussistenza del fatto".
Proviamo a metterci nella prospettiva di un Lavoratore che eccepisca un licenziamento formalmente motivato per calo di fatturato etc., ma rispetto a cui risulti un quadro di rapporti personali col Datore di Lavoro molto complesso, a fronte di pesanti disaccordi politici. Quanto può pesare l'antipatia politica (che pure è fatto personale e in sè non coercibile) al punto da invalidare un licenziamento per motivi economici?
La legge Monti-Fornero precisa: per invalidare un "licenziamento economico" è necessario provare che i fatti addotti a sostegno del licenziamento "non sussistono". Ciò significa che se il Lavoratore ha impostato la propria azione giudiziaria sulla "reintegra attenuata", ove si trovi a dover constatare che i motivi economici esistono e che avrebbero comunque determinato il licenziamento, il licenziamento deve considerarsi valido.
E la prova di screzi etc. fanno decadere la prova della discriminazione? Sì.
Anche nell'ipotesi di un'azione impostata ex. art. 18.01°comma, la prevalenza netta delle circostanze economiche nel licenziamento è tale da rendere anche l'eventuale "motivo illecito discriminatorio" non determinante, e, quindi, non rilevante ai fini della reintegra piena.
Tutto questo complesso di motivi a Ns. parere conforta la ricostruzione esegetica secondo la quale l'espressione "motivo illecito determinante" nel corpus del primo comma dell'art. 18 ha una valenza propria e serve ad indicare qualunque ipotesi di "dolo discriminatorio" nel corso del licenziamento, con l'avvertenza però di precisare che ai fini dell'azione di reintegra piena assumono rilievo solo le motivazioni dolose "dirette", che così delimitano (efficacemente) l'area delle condotte interessate alla specifica "Modulazione" anti-discriminatoria del licenziamento di cui all'art. 18.01°comma.
In altre parole, la reintegra anti-discriminatoria trova in sè, nella sua logica di "azione di dolo generale", la chiave per auto-limitarsi: per auto-limitarsi nel segno del più rigoroso onere della prova (art. 2697 Codice Civile), tale da scoraggiare (anche per le potenzialità penali in termini di diffamazione) un'iniziativa processuale avventata.

Fine 1a parte-Continua

Dr. Giorgio Frabetti, Profilo Linkedin: http://www.linkedin.com/profile/view?id=209819076&goback=%2Enmp_*1_*1_*1_*1_*1_*1_*1_*1_*1&trk=tab_pro
Collaboratore Studio Francesco Landi, Consulente del Lavoro, Ferrara
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