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venerdì 27 novembre 2015

LAVORO A TERMINE, COME DISTINGUERE LA PROROGA DALLA "MERA CONTINUAZIONE"

Quesito:
Alle previsioni della “proroga” e della “continuazione oltre il termine”, il D.lgs. 81/2015, ponendosi sulla scia del D.lgs. 368/2001 dedica due distinte disposizioni, l’art. 21 e l’art. 22 D.lgs. 81/2015.
Se la distinzione è agevole in teoria, meno agevole la distinzione può essere in pratica.
Come dobbiamo considerare, ad esempio, il caso di rapporto a termine che continui oltre la scadenza per più di 10 gg. e che risulti tardivamente oggetto di una comunicazione di proroga al Centro per l’Impiego (ovviamente, in sanzione)?
Si applica, in questo caso, la maggiorazione retributiva del 20%?

Risposta: L’art. 22 D.lgs. 81/2015, ovvero la previsione della “prosecuzione di fatto del rapporto” prevede:

1. Fermi i limiti di durata massima di cui all'articolo 19, se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20 per cento fino al decimo giorno successivo e al 40 per cento per ciascun giorno ulteriore.
2. Qualora il rapporto di lavoro continui oltre il trentesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il cinquantesimo giorno negli altri casi, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.

Ora, tale disciplina pare applicarsi per lo più in via residuale, laddove non sia possibile giustificare in altro modo la prosecuzione del rapporto a termine.
Laddove, invece, in cui sia documentabile la volontà delle parti di prorogare comunque il rapporto (es. da scrittura, da comunicazione via mail etc.), riteniamo coerente applicare gli effetti della proroga ex. art. 21, pur se tardivamente comunicata al Centro per l’Impiego, non gli effetti dell’art. 22 D.lgs. 81.
Concludendo, solo mancando qualsiasi atto o elemento che attesti la proroga, si applicherà la disciplina dell’art. 22 cit., unitamente alle conseguenti maggiorazioni retributive.

giovedì 26 novembre 2015

SUCCESSIONE DI CONTRATTI A TERMINE E PATTO DI PROVA

Quesito:
E’ molto frequente che un’Azienda assuma un Dipendente a termine in più momenti. Deve fissare sempre il “patto di prova”? O, nelle successive assunzioni, deve ritenersi illegittimo?

Risposta:
Il caso non è disciplinato dal Codice Civile. Come già precisato in una precedente mail, questa materia è di massima rimessa all’autonomia contrattuale individuale delle parti, secondo uno schema che, fissato fin dal RDL 1825/24 e poi rifluito nel Codice Civile del 1942, non è stato al momento abbandonato.
Il giudizio di legittimità o illegittimità del patto di prova nel caso di successione di più contratti a termine tra lo stesso Lavoratore e lo stesso Dipendente va, pertanto, condotto in conformità al “diritto comune” dei contratti e, in particolari, valutando se, nel caso di specie, il patto di prova risulta finalizzato ad una causa contrattuale meritevole di tutela (art. 1343 C.C.).
Su questa posizione, si era attestata la stessa Corte Costituzionale che, con sentenza nr. 189/1980, aveva precisato che il periodo di prova deve intendersi finalizzato a consentire la verifica delle attitudini del Dipendente al rapporto di lavoro (aspetti confermati da Cass. nr. 5016/2004 e nr. 8579/2004).
Questo stato di cose ha portato la giurisprudenza a sviluppare una valutazione fluida della legittimità del patto di prova nella successione dei contratti a termine, che si è sviluppata in molteplici dimensioni e sfaccettature.
Ad esempio, se i contratti a termini che si avvicendano in successione hanno per oggetto le stesse mansioni, la Cassazione ha riconosciuto non giustificata (quindi, nulla) l’apposizione del patto di prova (Cass. Sez. lav. 10440/2012).
Non così, invece, nel caso in cui le mansioni siano le stesse, ma, da un contratto a termine all’altro, sia variata la località di lavoro rispetto al luogo di residenza (es. il caso del Lavoratore di Ferrara che ha lavorato a termine come elettricista a Ferrara e che successivamente sia assunto a Milano presso la Casa Madre del Datore di Lavoro).
In queste circostanze, la giurisprudenza ravvisa un elemento di “novità”, perché determina un rilevante cambiamento di vita del Dipendente (in termini di vita familiare, personale etc.) ed è stato ritenuto legittimo e giustificato il patto di prova per verificare l’effettiva attitudine del Dipendente al nuovo impiego (Cass. Sez. Lav. 3/7/2015 nr. 13672).
Più complesso il cambio appalti, dove, di norma, il patto di prova non dovrebbe essere giustificato, attesa la continuità delle mansioni del personale nel passaggio da un’Azienda Cedente all’Azienda subentrante. In questo caso, però, la giurisprudenza ritiene legittimo il patto se previsto dalla contrattazione collettiva (Cass. 17371/2015).
A disposizione per approfondimenti

mercoledì 25 novembre 2015

LAVORO A TERMINE: SE IL TERMINE DEL PERIODO DI PROVA COINCIDE COL TERMINE DEL CONTRATTO

Quesito:
Tizio viene assunto per 6 mesi dalla Ditta di cui è titolare Caio. Il suo contratto (per effetto di CCNL) prevede un periodo di prova di pari durata. Il patto di prova deve considerarsi illegittimo?

Risposta (tratta da Euroconference, 19/11/2015, articolo Il patto di prova nei contratti a termine):
Sicuramente, tale contrattualistica è anomala e distorta: se, infatti, la fissazione di un termine finale al contratto di lavoro subordinato a tempo determinato mira a garantire una stabilità (almeno temporanea) al rapporto di lavoro, la sovrapposizione del periodo di prova sicuramente aggira questa temporanea stabilità, poiché in questo periodo il rapporto può essere sciolto liberamente.
Anche nell’assunzione a termine (come quella a tempo indeterminato), l’impiego deve avvenire in due fasi: la prima fase, dove è possibile la “prova”, ossia la verifica delle attitudini del lavoratore; una seconda fase, dove il rapporto, per quanto a termine, si considera consolidato nei contenuti professionali ed economici.
Non esiste, al riguardo, una specifica norma di legge che garantisca l’adeguamento del periodo di prova nei contratti a termine (nemmeno il RDL 1825/1924, la prima organica normativa sul contratto di lavoro subordinato in Italia, aveva disciplinato questa ipotesi).
E questo, per il semplice ed elementare motivo, che il Codice Civile (scritto nel 1942) concepisce la “prova” come “elemento accidentale del contratto”, modulabile a discrezione delle esigenze delle parti. In questo senso, la legge (ex. art. 2096 Codice Civile ed art. 10 l. 604/66) disciplina il termine del periodo di prova usualmente definito nel massimo: nulla, pertanto, impedisce alle parti di definire liberamente un periodo minore: ricordiamo che, sul punto, ovvero sulla determinazione del periodo di prova, l’autonomia delle parti (Datore di Lavoro e Lavoratore) è piena, purchè il periodo di prova rientri nei massimi previsti dal CCNL (o, in mancanza, dalla legge: 6 mesi). Rimettendo, pertanto, il Codice Civile alle parti il modellamento del periodo di prova, nulla impedisce che siano le parti stesse del contratto di lavoro a termine a modellare il periodo di prova in modo adeguato alla tipologia di assunzione (e certamente, l’assunzione a termine può essere un’occasione utile per esercitarsi in questo).
Tutto questo, salvo che il CCNL non espropri le parti tale autonomia contrattuale (ad esempio, fissando un periodo di prova fisso, non modificabile), o non fissi un periodo minimo dove è precluso il recesso.
Non mancano, comunque, le esemplificazioni utili della contrattazione collettiva.
-Art. 27.10°COMMA, CCNL CEMENTO INDUSTRIA: I periodi di prova di cui all'art. 21 sono confermati per i rapporti con contratto a tempo determinato di durata pari o superiore a 6 mesi. Per contratti di durata inferiore i periodi ivi previsti sono ridotti del 50% con una durata, in ogni caso, non inferiore ad un mese. Decorso il periodo di prova senza che nessuna delle parti abbia dato regolare disdetta, il lavoratore avrà diritto a prestare l'attività lavorativa per l'intero periodo previsto dal contratto a meno che non intervenga una giusta causa di recesso”.
-ART. 27.2°COMMA CCNL CALZATURE:Per le assunzioni a termine di durata fino a sei mesi, la durata del periodo di prova di cui sopra è ridotta della metà”.
-ART. 7.4°COMMA CCNL ORIFICERIA INDUSTRIA (SEZ. “DISCIPLINA COMUNE-Contratti di natura temporanea): “Il periodo di prova di cui alle specifiche normative della Disciplina speciale, Parte prima e Parte terza, non potrà avere una durata superiore al 40% della durata del contratto a tempo determinato, fermi restando i limiti massimi previsti nelle suddette normative; esso non potrà essere reiterato da parte della stessa azienda in caso di nuova assunzione sia con contratto a termine che con contratto a tempo indeterminato entro 12 mesi per le medesime funzioni”.
Le Parti, nel modellare il patto di prova al tempo determinato, possono prendere spunto da esempi similari. A disposizione per aggiornamenti

martedì 24 novembre 2015

LAVORO A TERMINE, IL DIRITTO DI PRECEDENZA NEL CCNL STUDI PROF

Anche il “diritto di precedenza” nel rapporto a tempo determinato segue una peculiare disciplina nel settore Studi Prof. Allo stato, infatti, l’art. 53.9-12 commi CCNL stabilisce:

I lavoratori assunti in ottemperanza del presente articolo avranno titolo preferenziale per il passaggio da tempo determinato a tempo indeterminato in caso di nuove assunzioni, con le stesse mansioni, alle condizioni previste dal D.Lgs. 368/2001.
A tal fine i datori di lavoro devono attenersi alla seguente graduatoria:
- lavoratori ai quali il contratto a tempo determinato è scaduto negli ultimi 6 (sei) mesi con precedenza al lavoratore che ha terminato il rapporto da più tempo;
- lavoratori ai quali il contratto a tempo determinato è scaduto in un periodo superiore agli ultimi 6 mesi e con precedenza al lavoratore che ha terminato il rapporto da più tempo;
I lavoratori assunti con più di un contratto a termine dallo stesso datore di lavoro, avranno titolo preferenziale per ulteriori assunzioni a tempo determinato, per lo svolgimento delle medesime mansioni, nei dodici mesi successivi dalla cessazione dell'ultimo contratto.
Tale diritto deve essere esercitato dal lavoratore entro tre mesi dalla cessazione dell'ultimo rapporto.
Il diritto di precedenza deve essere richiamato nel contratto di lavoro individuale.

Una disciplina leggermente diversa è quella prevista dall’art. 24.1°comma:

Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, il lavoratore che, nell'esecuzione di uno o più contratti a tempo determinato presso la stessa azienda, ha prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine.

Anche qui, l’inciso di legge “salva diversa disposizione dei contratti collettivi”, che pare riferirsi ai CCNL “vigenti” al 25/6/15, sembra far sì che il diritto di precedenza resti regolato dal CCNL in vigore al 25/6/2015 (data di entrata in vigore del D.lgs. 81/2015).
L’art. 24 si applica per le parti non disciplinate dal CCNL (es. maternità).
Si noti che nel settore Studi prof. la disciplina del “diritto di precedenza” è diversa dal consueto: il Datore non sembra vincolato solo dalla manifestazione di volontà del Lavoratore di avvalersi del diritto di precedenza. Sembra, al contrario, farsi discendere in capo al Professionista l’onere della previa offerta del posto di lavoro (a termine, a tempo indeterminato), in relazione a specifiche decorrenze di scadenza.
Il punto è evidentemente delicato, e merita il massimo di approfondimento e chiarimento possibile.
A disposizione per aggiornamenti e approfondimenti

LAVORO A TERMINE, LA NON DISCRIMINAZIONE DEI DIPENDENTI A TEMPO DETERMINATO

Si coglie l’occasione di rilevare come, confermando quanto previsto dal vecchio art. 6 D.lgs. 368/2001, l’art. 25 D.lgs. 81/2015 codifica in questi termini il cd “principio di non discriminazione”:

1. Al lavoratore a tempo determinato spetta il trattamento economico e normativo in atto nell'impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato, sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a tempo determinato.
2. Nel caso di inosservanza degli obblighi di cui al comma 1, il datore di lavoro è punito con la sanzione amministrativa da 25,82 euro a 154,94 euro. Se l'inosservanza si riferisce a più di cinque lavoratori, si applica la sanzione amministrativa da 154,94 euro a 1.032,91 euro.

La recente dispensa Confprofessioni dedicata al lavoro a termine nel settore Studi Prof. fa notare (coerentemente) che tale norma esige non solo l’inquadramento del Dipendente a termine in coerenza con i trattamenti economici e normativi disposti dal CCNL (retribuzione, livelli di inquadramento e classificazione), ma anche con i trattamenti (economici e normativi) “in atto” presso la Struttura. Questa disposizione può porre alcuni problemi (come segnalato da Confprofessioni) in caso di trattamenti come i “buoni pasto”, ad esempio.
Allo stato, e nell’assenza di chiarimenti ministeriali, possiamo ritenere che il Datore non possa negare al Dipendente a termine il “buono pasto”, ove esista una regolamentazione interna (collettiva o aziendale) che lo riconosca in modo generalizzato e non ad personam. In questo caso, la mancata corresponsione al lavoratore a termine può essere soggetta alla sanzione amministrativa (non così irrisoria) prevista dalla legge.
Non così nei casi in cui il “buono pasto” abbia una valenza di fringe benefit (incentivo marginale) ad personam: la peculiare rilevanza “personale” di tale emolumento dovrebbe escludere ogni automatica estensione al lavoratore a termine.
Ma restiamo in attesa di chiarimenti ministeriali.
A disposizione per aggiornamenti e approfondimenti.

venerdì 20 novembre 2015

ESONERO INPS EX.ART.1.118 COMMA L.190/2014: IL MANCATO SUPERAMENTO DEL PERIODO DI PROVA, QUANDO INIBISCE IL BENEFICIO

Caso:
Tizio si appresta ad assumere Caio a tempo indeterminato e conta sulla fruizione dell’esonero INPS. Caio è stato da poco licenziato per mancato superamento del periodo di prova, pur nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Può Caio, a queste condizioni, essere agevolato?

Risposta:
L’art. 1.118°comma l. 190/2014 prevede quanto segue:

L'esonero di cui al presente comma spetta ai datori di lavoro in presenza delle nuove assunzioni di cui al primo periodo, con esclusione di quelle relative a lavoratori che nei sei mesi precedenti siano risultati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro …

La Circolare INPS, in conformità al “diritto comune”, ha precisato che la presenza di un periodo di prova non osti alla configurazione di un rapporto a tempo indeterminato.
Pertanto, se tale rapporto è venuto a cadere (e a sciogliersi per “mancato superamento della prova”) nei 6 mesi antecedenti, l’ultima assunzione non può beneficiare dell’esonero INPS. Quindi, Tizio, per l’assunzione di Caio, non potrà applicare il beneficio ex. art. 1.118°comma l. 190/2014.
Ecco il testo di interesse della Circolare INPS:

“ (…) Anche laddove il precedente rapporto di lavoro - intercorso nei sei mesi precedenti l'assunzione - sia stata risolto per mancato superamento del periodo di prova ovvero per dimissioni del lavoratore, non si ha diritto alla fruizione dell'esonero. In proposito, si ricorda come l'istituto del periodo di prova abbia lo scopo di consentire al lavoratore di valutare l'esperienza lavorativa offerta e al datore di lavoro di rilevare l'adeguatezza delle competenze e delle effettive capacità del prestatore rispetto alle specifiche esigenze produttive. Ciononostante il rapporto di lavoro, pur sottoposto ad una condizione - il superamento del periodo di prova - deve essere considerato a tempo indeterminato sin dall'origine”

giovedì 19 novembre 2015

ESONERO INPS EX.ART.1.118 COMMA L.190/2014: COME OPERA NEI RAPPORTI PART TIME

Quesito:
In caso di assunzioni a tempo indeterminato part time, l’esonero INPS ex. art. 1.118°comma l. 190/2014 come si applica?

Risposta (Circ. INPS 178/2015):
Nel caso di specie, l’art. 1.118°comma l. 190/2014 così dispone:

L'esonero di cui al presente comma spetta ai datori di lavoro in presenza delle nuove assunzioni di cui al primo periodo, con esclusione di quelle relative a lavoratori che nei sei mesi precedenti siano risultati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro, e non spetta con riferimento a lavoratori per i quali il beneficio di cui al presente comma sia già stato usufruito in relazione a precedente assunzione a tempo indeterminato.

E’ quest’ultimo inciso (da noi sottolineato) che ha suscitato le interpretazioni più restrittive.
Considerate due assunzioni part time, avvenute in tempi diversi, di cui una avente i requisiti per l’agevolazione de qua (assenza di rapporti a tempo indeterminato nei precedenti 6 mesi …), l’indirizzo più restrittivo della dottrina riteneva preclusa la fruizione del beneficio per la seconda assunzione: proprio perché l’art. 1.118° cit. preclude l’agevolazione a quei lavoratori “per i quali il beneficio di cui al presente comma sia già stato usufruito in relazione a precedente assunzione a tempo indeterminato”.
La recente Circolare INPS ha confermato questa interpretazione, la più letterale e restrittiva:

(…) Con riferimento ai rapporti di lavoro part time a tempo indeterminato, l'esonero, nei limiti e alle condizioni illustrate nella circolare n. 17/2015, spetta anche nei casi in cui il lavoratore sia assunto da due diversi datori di lavoro in relazione ad ambedue i rapporti, purché la data di decorrenza dei predetti rapporti di lavoro sia la medesima. In caso di assunzioni differite, il datore di lavoro perderebbe, infatti, con riguardo al secondo rapporto di lavoro part-time, il requisito legittimante l'ammissione all'agevolazione in oggetto”.

Unica, eccezione, quindi, il caso che le due diverse assunzioni part time siano simultanee.

ESONERO INPS EX.ART.1.118 COMMA L.190/2014: QUANDO IL LAVORATORE HA PRESTATO SERVIZIO ALL'ESTERO

Caso:
Tizio intende assumere Caio, quale dipendente a tempo indeterminato usufruendo dell’esonero INPS ex. art. 1.118°comma l. 190/14. Nei sei mesi precedenti, però, Caio è stato dipendente in Francia, assicurato presso la gestione pensionistica pubblica francese. Questa circostanza deve intendersi ostativa o meno al riconoscimento dell’agevolazione citata?

Risposta (Circ. INPS nr. 178/2015):
L’art. 1.118°comma l. 190/2014 prevede quanto segue:

"L'esonero di cui al presente comma spetta ai datori di lavoro in presenza delle nuove assunzioni di cui al primo periodo, con esclusione di quelle relative a lavoratori che nei sei mesi precedenti siano risultati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro … "

La Circolare INPS ha escluso recisamente che, nel caso di cui sopra, non spetti l’agevolazione de qua:

(…) La sussistenza del predetto requisito [assenza di rapporti a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti, nota nostra] va valutata a prescindere dalla circostanza che la tutela dei diritti assicurativi obbligatori fosse assicurata presso una gestione pensionistica italiana o estera. Pertanto, l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato all'estero nei sei mesi precedenti l'assunzione non consente la fruizione dell'esonero contributivo anche laddove, sulla base della legislazione internazionale, il precedente rapporto di lavoro non contemplasse l'obbligo assicurativo nei confronti di una gestione previdenziale nazionale”.

Questa conclusione non merita particolari commenti, essendo perfettamente coerente alla lettera del testo di legge che connette le “assunzioni a tempo indeterminato” costituite fino a 6 mesi prima, impeditive alla fruizione dell’esonero INPS di cui si tratta, “presso qualsiasi Datore di Lavoro”.
Dove “qualsiasi Datore di Lavoro” sta, evidentemente, per “Datore italiano soggetto ad INPS”, “Datore estero soggetto ad altra Previdenza Pubblica Obbligatoria”.

mercoledì 18 novembre 2015

MATERNITA', ASTENSIONE OBBLIGATORIA: QUANDO E' VIETATO IL LAVORO ALLA LAVORATRICE MADRE DOPO IL DLGS 80/2015

Quesito:
In che modo il D.lgs. 80/2015 ha inciso sull’obbligo ex. art. 16 D.lgs. 151/2001 delle Lavoratrici madri di astensione dal Lavoro?

Risposta:
Su questo aspetto, l’intervento del D.lgs. 80/2015 è stato minimo. Il Jobs Act (ritoccando l’art. 16 e introducendo ex novo l’art. 16bis) si è limitato a precisare che è vietato adibire al lavoro le donne:

-Durante i 2 mesi precedenti la data presunta del parto, salvo che le Lavoratrici non decidano di astenersi dal lavoro, a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei 4 mesi successivi al parto*;
-Ove il parto avvenga oltre la data presunta, per il periodo intercorrente tra tale data e la data effettiva del parto*;
-Durante i 3 mesi dopo il parto;
-Durante i giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta.
Tali giorni si aggiungono al periodo di congedo di maternità dopo il parto, anche qualora la somma dei periodi superi il limite complessivo di 5 mesi.

*CONTEGGIO MESI MATERNITA’: Per quanto riguarda il conteggio che precede il parto, il Datore di Lavoro deve calcolare i 2 mesi a ritroso, senza includere nel computo la data presunta di nascita indicata nel certificato di gravidanza (Msg INPS nr. 18311/2007).

Esempio:
-Data presunta del parto, 15 agosto;
-Astensione precedente il parto, dal 15/6 al 14/8 (compreso);
-Astensione successiva al parto: se il bambino nasce effettivamente dopo il 15/8, il periodo complessivo ordinario di astensione facoltativa sarà pari a 5 mesi ed 1 giorno (15/6-15/11).

L’art. 16bis disciplina un caso particolare, di rinvio e sospensione del congedo di maternità, a suo tempo già oggetto di una pronuncia della Corte Costituzionale (sent. 116/2011).
In caso di ricovero nel neonato in Struttura pubblica o privata, la madre ha diritto di chiedere la sospensione del congedo di maternità (durante i 3-4 mesi dopo il parto, ovvero durante i giorni non goduti prima del parto, in caso di parto prematuro), e di godere del congedo, in tutto o in parte, dalla data di dimissione del bambino.
Il diritto può essere esercitato una sola volta per ogni figlio ed è subordinato alla produzione di attestazione medica che dichiari la compatibilità dello stato di salute della donna con la ripresa dell’attività lavorativa.

ATTENZIONE: Il divieto ex. art. 16 D.lgs. 151/2001 (astensione dal lavoro) è indisponibile, non può in nessun caso essere oggetto di rinuncia da parte della Lavoratrice neppure in presenza di attestazione del medico curante circa l’assenza di contro-indicazioni alla ripresa dell’attività lavorativa (Min. Lav. Interpello nr. 51/2009). Per questo motivo, le ferie e le assenze eventualmente spettanti alla Lavoratrice ad altro titolo (es. ROL, Ex-Festività) non possono essere godute contemporaneamente ai periodi di astensione obbligatoria (art. 22.6°comma D.lgs. 151/2001; C. Giust. CE 18/3/2004 C-342/01).

martedì 17 novembre 2015

LA DISCIPLINA DELLA PROROGA NELLA SOMMINISTRAZIONE A TEMPO DETERMINATO

Quesito:
Nel contratto di somministrazione a tempo determinato, la proroga è regolata secondo le norme del contratto a termine, ovvero da norme particolari?

Risposta:
L’art. 34.2°comma D.lgs. 81/2015, per la proroga dei contratti di somministrazione a tempo determinato, dispone quanto segue:

In caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III per quanto compatibile, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 19, commi 1, 2 e 3, 21, 23 e 24. Il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore.

Come si evince dall’articolo, la disciplina della proroga contenuta nell’art. 21 non è applicabile per le somministrazioni a tempo determinato.
Lo stesso articolo, però, introduce una disciplina ad hoc per la proroga (che ricalca in gran parte quella prevista in generale per i rapporti a termini): si prescrive il consenso del lavoratore, la forma scritta (e questa, come visto, è una particolarità, non prevista per il lavoro a termine) e “i casi” e “la durata” delle proroghe sono rimesse ai contratti collettivi. Con riguardo all’ultimo contratto collettivo applicabile alle Agenzie di Somministrazione, le proroghe sono possibili fino ad un massimo di 6 volte nell’arco di 36 mesi, come da normativa che si riporta di seguito in estratto

ESTRATTO CCNL AGENZIE SOMMINISTRAZIONE
(ART. 47):
1.La materia delle proroghe è di esclusiva competenza del presente Contratto Collettivo. Con riferimento al dettato previsto all'art. 22, comma 2, secondo periodo, del D.Lgs. 276/03, il periodo di assegnazione iniziale può essere prorogato per 6 volte nell'arco di 36 mesi. Il periodo temporale dei 36 mesi si intende comprensivo del periodo iniziale di missione, fermo restando che l'intero periodo si configura come un'unica missione.
2. Il periodo iniziale può essere prorogato con il consenso del lavoratore e, ai soli fini probatori, deve essere formalizzato con atto scritto. Le proroghe sono da intendersi continuative, senza alcuna soluzione di continuità del rapporto di lavoro.
3. Resta inteso che, nei casi di somministrazione per la sostituzione di lavoratori assenti, il periodo iniziale della missione può essere prorogato fino alla permanenza delle ragioni che hanno causato le assenze.
4. L'informazione al lavoratore della durata temporale della proroga va fornita, salvo motivi d'urgenza, con un anticipo di 5 giorni rispetto alla scadenza inizialmente prevista o successivamente prorogata, e comunque mai inferiore a 2 giorni.

TEMPO DETERMINATO, QUALE PROROGA PER I DIRIGENTI?

Quesito:
La disciplina della proroga (art. 21.1°comma D.Lgs. 81/2015) si applica ai Dirigenti?

Risposta:
In linea con un orientamento normativo consolidatosi fin dal vigore della l. 230/62, siamo a ritenere che dalla disciplina della proroga ex. art. 21.1°comma siano certamente esclusi i Dirigenti, per effetto del disposto di cui all’art. 29.2°comma lett. a) D.lgs. 81/2015.
In forza di tale esclusione, non si applicano le limitazioni dettate in generale per la proroga dall’art. 21.1°comma D.lgs. 81/2015: pertanto, il limite di non più di 5 proroghe non vale per i Dirigenti.
Un piccolo “giallo”: nella trasmigrazione delle disposizioni dal D.lgs. 368/01 al D.lgs. 81/2015, per i Dirigenti non si mantiene l’estensione ad essi delle discipline su “non discriminazione” e “computo per garanzie sindacali”. Si ritiene che l’esclusione riguardi i dirigenti quantomeno per le disposizioni ex. 27 D.lgs. 81 (criteri di computo).
A disposizione per aggiornamenti

venerdì 13 novembre 2015

IL LAVORO A TEMPO DETERMINATO NEL CCNL STUDI PROF. LA SPECIALE DISCIPLINA DEI 36 MESI E LA PROROGA

Un brevissimo flash per precisarVi che, nel settore CCNL Studi Professionali (art. 53.3°comma CCNL), la regola dei 36 mesi sui contratti a termine opera in modo peculiare, rispetto al disegno tracciato, in via generale, dall’art. 19.1°-2° comma D.lgs. 81/2015.
Sotto, il testo del CCNL di interesse:

La durata massima del rapporto di lavoro concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell'ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato, è fissata in 36 mesi, comprensiva di eventuali proroghe.

Da focalizzare l’inciso “per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione”: ciò significa che, per il settore Studi Prof., non vale la regola fissata dall’art. 19.2°comma D.lgs. 81, che ammette, nel conteggio del limite dei 36 mesi, solo contratti per “mansioni dello stesso livello o Categorie legali”, ma anche mansioni non equivalenti come livello e di differente Categoria Legale.
Questa deroga non pare poter essere abrogata dall'art.19.2°comma D.lgs. 81/2015. Pur essendo la disciplina del CCNL anteriore al "Codice dei contratti", essa deve ritenersi vigente perché l'art.19.2 comma dichiara "salve" tutte le diverse discipline collettive. Nel silenzio della norma, è legittimo ritenere che tali siano non solo le discipline che verranno, ma anche quelle esistenti. In questo senso, questa clausola (di pretto "diritto speciale") pare salvaguardare l'efficacia dell'art.53 CCNL in parte qua, impedendo che esso sia colpito dai meccanismi di abrogazione - successione delle leggi nel tempo (art. 15 preleggi).
CASO PRATICO: Nel caso di una Dipendente a termine assunta per 12 mesi come donna delle pulizie, e poi assunta per 24 come Segretaria, si cumuleranno tutti i periodi di servizio, a prescindere dalla radicale difformità di inquadramento e di mansioni.

PROROGA, DISCIPLINA CRITICA:
Quanto alla proroga, oggetto di disciplina nel comma 4 dell’art. 53 cit., il CCNL si attesta su un’interpretazione molto restrittiva rispetto al nuovo quadro tracciato dall’art. 22 D.lgs. 81/2015.
Nell’economia della riforma del tempo determinato, il rapporto è prorogabile senza più vincolo di mansioni. Tutto il contrario di quanto disposto dall’art. 53.4°comma CCNL Studi Prof. che dispone:

In relazione alle mansioni per la quale il contratto è stato inizialmente stipulato, sono ammissibili complessivamente un massimo di 5 proroghe.

L’impressione più coerente è che questa disciplina di CCNL debba intendersi superata dal nuovo art. 22: almeno, invocando l’analogia con la regole di diritto intertemporale ricostruite per il D.lgs. 81/2015, dalla sentenza del Tribunale di Roma del 25/9/2015 (sia pure per il diverso caso dell’art. 3): la nuova legge (D.lgs. 81/2015) abroga la precedente e, con essa, ogni disciplina collettiva connessa.
Ricordiamo che, per questa previsione, non esiste una previsione analoga a quella dell'art.19.2 comma. Dlgs 81, che faccia salve discipline, anche preesistenti, difformi. Pertanto, a questo articolo paiono applicarsi le regole generali ex. Art. 15 preleggi, e deve intendersi sostanzialmente superato dalle nuove disposizioni di legge.
Restiamo a disposizione per approfondimenti, auspicando eventuali conferme ministeriali.

giovedì 12 novembre 2015

QUANTO DURA L'ESONERO INPS EX. ART.1.118 COMMA L. 190/2014

L’esonero contributivo INPS ex. art. 1.118°comma l. 190/2014 riguarda le assunzioni a tempo indeterminato realizzate tra il 1/1/2015 e il 31/12/2015.
Per le assunzioni che avvengano oltre questa cornice, lo sgravio si applica solo in quanto sarà prorogato dalla prossima legge di stabilità (la legge di stabilità, infatti, prevede proroghe, con modifiche).
Una volta applicato, lo sgravio ha durata triennale. Questo punto è stato precisato dall’INPS in via definitiva.
Ecco lo stralcio del testo di interesse.

ESTRATTO CIRCOLARE INPS 178/2015:
3.3. Durata dello sgravio.
Il beneficio riguarda, come è noto, le nuove assunzioni con decorrenza dal 1° gennaio 2015 al 31 dicembre 2015. La sua durata è pari a trentasei mesi a partire dalla data di assunzione.
In caso di assunzione a tempo indeterminato a scopo di somministrazione, lo sgravio spetta sia per la somministrazione a tempo indeterminato che per la somministrazione a tempo determinato, per la durata complessiva di 36 mesi, compresi gli eventuali periodi in cui il lavoratore rimane in attesa di assegnazione.
Il periodo di godimento dell’agevolazione può essere sospeso nei casi di assenza obbligatoria dal lavoro per maternità (cfr. circolare n. 84/1999), consentendo il differimento temporale del periodo di fruizione dei benefici.

A disposizione per approfondimenti

SGRAVIO INPS EX.ART.1.118 COMMA L. 199/2014: LE ALIQUOTE PREVIDENZIALI NON SOGGETTE AD ESONERO

La Circolare INPS 178/2015 riepiloga quelle che sono le voci contributive non interessate dall’esonero contributivo ex. art. 1.118°comma l. 190/14.
L’esonero contributivo introdotto dalla legge di stabilità 2015 è pari ai contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, con eccezione delle seguenti forme di contribuzione:
-I premi e i contributi dovuti all’INAIL, per effetto della esclusione operata dallo stesso comma 118, articolo 1, della legge n. 190/2014;
-Il contributo, ove dovuto, al “fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’art. 2120 del c.c.” di cui al comma 755, articolo 1, della legge n. 296/2006, per effetto dell’esclusione dall’applicazione degli sgravi contributivi operata dal comma 765, ultimo periodo, della medesima norma;
-Il contributo, ove dovuto, ai fondi di cui all’art. 3, commi 4,[2] 14 e 19, della legge n. 92/2012, per effetto dell’esclusione dall’applicazione degli sgravi contributivi prevista dall’art. 3, comma 25, della medesima legge.

L’INPS, inoltre, spiega che: “ai fini dell’individuazione delle forme di contribuzione obbligatoria soggette all’esonero contributivo di cui si tratta, in assenza di specifiche previsioni di legge, vanno escluse dall’applicazione dell’esonero le contribuzioni che non hanno natura previdenziale e quelle concepite allo scopo di apportare elementi di solidarietà alle gestioni previdenziali di riferimento”.
In questa prospettiva, non sono soggette all’esonero contributivo triennale le seguenti forme di contribuzione, ancorché di natura obbligatoria:
-Il contributo per la garanzia sul finanziamento della Qu.I.R., di cui all’art. 1, comma 29, della legge n. 190/2014;
-Il contributo previsto dall’articolo 25, comma 4, della legge 21 dicembre 1978, n. 845, in misura pari allo 0,30% della retribuzione imponibile, destinato, in relazione ai datori di lavoro che vi aderiscono, al finanziamento dei fondi interprofessionali per la formazione continua istituiti dall’art. 118 della legge n. 388/2000;
-Il contributo di solidarietà sui versamenti destinati alla previdenza complementare e/o ai fondi di assistenza sanitaria di cui alla legge n. 166/1991;
-il contributo di solidarietà per i lavoratori dello spettacolo, di cui all’art. 1, commi 8 e 14, del d.lgs. n. 182/1997;
-il contributo di solidarietà per gli sportivi professionisti, di cui all’art. 1, commi 3 e 4 del d.lgs. n. 166/1997.

ART. 3.15°COMMA LEGGE 297/82: ALIQUOTA 0.50% DESTINATA AL FINANZIAMENTO IVS: COSA SUCCEDE SE IVS E’ COPERTA DA SGRAVIO EX. ART. 1.118°COMMA:
Al riguardo, si riporta integralmente il passaggio dedicato della Circolare INPS:

Si precisa, inoltre, che, trattandosi di una contribuzione previdenziale a carico del datore di lavoro, il contributo aggiuntivo IVS, previsto dall’articolo 3, comma 15, della legge 297/1982 destinato al finanziamento dell’incremento delle aliquote contributive del Fondo pensioni dei lavoratori dipendenti in misura pari a 0,50% della retribuzione imponibile, è soggetto all’applicazione dell’esonero contributivo triennale. Al riguardo, si fa presente che il successivo comma 16 della sopra citata disposizione di legge prevede contestualmente l’abbattimento della quota annua del trattamento di fine rapporto in misura pari al predetto incremento contributivo. Pertanto, una volta applicato l’esonero dal versamento del predetto contributo aggiuntivo IVS il datore di lavoro non dovrà evidentemente operare l’abbattimento della quota annua del trattamento di fine rapporto del lavoratore ovvero dovrà effettuare detto abbattimento in misura pari alla quota del predetto contributo esclusa, per effetto dell’applicazione del massimale annuo di 8.060 euro, dalla fruizione dell’esonero contributivo”.

SGRAVIO INPS EX. ART. 1.118°COMMA L. 190 E MISURE COMPENSATIVE EX. ART. 10.2°-3°COMMA D.LGS. 252/2005:
Sul punto, l’INPS precisa:
Poiché, infine, l’esonero contributivo introdotto dalla legge di stabilità 2015 opera sulla contribuzione effettivamente dovuta, in caso di applicazione delle misure compensative di cui all’art. 10, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 252/2005 – destinazione del trattamento di fine rapporto ai fondi pensione, al fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’art. 2120 del c.c., nonché erogazione in busta paga della Qu.I.R. - l’esonero è calcolato sulla contribuzione previdenziale dovuta, al netto delle riduzioni che scaturiscono dall’applicazione delle predette misure compensative”.
A disposizione per approfondimenti

mercoledì 11 novembre 2015

RIFORMA DELLE MANSIONI: RAPPORTI TRA LA NUOVA DISPOSIZIONE DI LEGGE E I "VECCHI" CCNL

Quesito:
Dopo la riforma dell’art. 2103 C.C. (disciplina delle mansioni) da parte dell’art. 3 D.lgs. 81/2015, che ne è di quelle disposizioni dei CCNL di settore che, nel disciplinare le mansioni, disciplinano i diritti di inquadramento del Dipendente facendo riferimento alle “mansioni equivalenti”? Devono intendersi abrogate, o tuttora in vigore? E quale disciplina deve applicarsi ai rapporti di lavoro subordinato già costituiti secondo la vecchia normativa, la vecchia o la nuova?

Risposta:
I quesiti sono strettamente intrecciati tra di loro.
I RIFLESSI DI UNA MODIFICA DI LEGGE SUL CCNL:
Come noto, nel disegno originario delle Disposizioni preliminari al Codice Civile, erano previste una serie di norme (art. 5, 6, 7) che qualificavano come “fonti pubblicistiche” i contratti collettivi (cd “corporativi”).
L’art. 7 prefigurava il rapporto legge-contrattazione collettiva “corporativa” secondo la regola della “competenza”, accordando a questa fonte una regolazione pressocchè esclusiva del contratto di lavoro, e lasciando alla legge la regolazione delle norme cd “imperative”.
Con la soppressione dell’ordinamento corporativo (pubblicistico) ad opera del RDL 721/1943 (che ha provveduto a smantellare gran parte dell’ordinamento giuridico fascista), le “norme corporative” sono state automaticamente degradate a norme di pretta “autonomia privata”, prive di quella efficacia giuridica speciale inizialmente configurata dalle Preleggi.
Nel caso di specie, il sopravvenire di una norma (l’art. 3 D.lgs. 81/2015), che riforma in pejus l’art. 2103 Codice Civile e il conseguente “diritto all’inquadramento” del Lavoratore prevale certamente su quei CCNL (la totalità) che regolano l’inquadramento del lavoratore secondo la previgente disciplina, con riferimento alle cd “mansioni equivalenti”. Queste disposizioni di CCNL devono intendersi certamente abrogate, con effetto dal 25/6/2015 (data di entrata in vigore del D.lgs. 81/2015).

EFFICACIA NEL TEMPO DELLA MODIFICA DELL’ART. 2103 C.C.: Nell’ultimo quesito (“ … Quale disciplina deve applicarsi ai rapporti di lavoro subordinato già costituiti secondo la vecchia normativa, la vecchia o la nuova?”), si pone un problema di pretto diritto intertemporale.
E questo è affatto coerente, dato che, quando si discute di abrogazione di una norma, non può non porsi il problema del dies a quo di decorrenza di tale efficacia abrogativa.
Su questo specifico aspetto, siamo anche fortunati, dato che questo specifico argomento è stato trattato in una recente sentenza di merito del Tribunale di Roma (30/9/2015), la prima dedicata a questo aspetto tanto delicato e qualificante delle recenti riforme del lavoro.
Il Tribunale di Roma ha concluso per la immediata applicabilità della nuova disciplina dell’inquadramento anche ai rapporti di lavoro in corso.
Allo stato attuale, questa conclusione deve comunque intendersi coerente: l’art. 3 D.lgs. 81, infatti, ha riformato l’art. 2103 Codice Civile, ma non ha previsto un diritto transitorio; di qui, la ricostruzione dell’efficacia temporale della nuova disposizione va necessariamente compiuta secondo il diritto comune, particolarmente secondo l’art. 15 Disp. Prel. che dispone “la vigenza per il futuro” delle nuove disposizioni di legge: ciò significa, evidentemente, che la nuova disciplina si applica a tutti i rapporti in essere al 25/6/2015 (data di entrata in vigore del D.lgs. 81/2015).

Note di dottrina: Su quest’ultima interpretazione, sono anche attualmente attestati Avv. BERTI (Studio Maresca) in Diritto 24 del 12/10/15.

martedì 10 novembre 2015

DISCIPLINA DEL LAVORO A TERMINE: I LAVORATORI A TERMINE IN MOBILITA', QUALE DISCIPLINA SI APPLICA?

Quesito:
Con il D.lgs. 81/2015, cambia la disciplina del lavoro a tempo determinato del personale in mobilità nella speciale ipotesi ex. art. 8.2°comma l. 223/91 (ipotesi speciale di assunzione non superiore a 12 mesi)?

Risposta:
Di questo tema, il D.lgs. 81/2015 si occupa di questa fattispecie all’art. 29.1°comma lettera a), dove dispone:

Art. 29. Esclusioni e discipline specifiche.
1. Sono esclusi dal campo di applicazione del presente capo, in quanto già disciplinati da specifiche normative: a) ferme restando le disposizioni di cui agli articoli 25 e 27, i rapporti instaurati ai sensi dell'articolo 8, comma 2, della legge n. 223 del 1991 (...)

Questa disposizione riproduce in toto la disposizione a suo tempo introdotta dal DL 76/2013 (Decreto Lavoro Letta-Giovannini) per consolidare un’interpretazione che, pur affermata da decenni in sede amministrativa, era stata smentita in anni recenti da alcune sentenze di merito che avevano negato la “specialità” dell’assunzione a termine ex. l. 223/91 e l’avevano assimilata al “lavoro a termine” ex D.lgs. 368/2001.
Nel vigore del D.lgs. 81, quindi, si conferma la specialità dell’assunzione a termine per “mobilità”, salvo che per due punti (già previsti dal DL 76/13): art. 25 (non discriminazione), art. 29 (criteri di computo). Ovviamente, gli articoli nel DL 76 erano diversi (rispettivamente artt. 6 e 8 D.lgs. 368/01).
Per riepilogare la disciplina applicabile, crediamo fare cosa gradita riprendendo quel passaggio della Circolare Min. Lav. 35/2013, dedicato a questa fattispecie: non essendo mutata la disciplina legale, il contenuto della Circolare deve certamente ritenersi confermato (avendo cura di raccomandare, per la lettura, che i riferimenti al dlgs 368 devono essere coordinati con il successivo dlgs 81 2015):

Lavoratori in mobilità e contingentamento dei contratti
All'art. 10 del D.Lgs. n. 368/2001 il Legislatore introduce anzitutto una modifica volta a chiarire che, in relazione alle assunzioni a termine di lavoratori in mobilità ai sensi dell'art. 8, comma 2, della L. n. 223/1991, non trovano applicazione le disposizioni di cui allo stesso D.Lgs. n. 368. Ciò sta a significare che, in relazione alle assunzioni di tale categoria di lavoratori, non è necessario il rispetto della disciplina concernente, ad esempio, l'indicazione delle ragioni di carattere "tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo" o il rispetto degli intervalli. Il Legislatore, in sede di conversione del D.L., fa invece espressamente salvo il rispetto della disciplina di cui agli artt. 6 e 8 del D.Lgs. n. 368/2001 relativa, rispettivamente, al "principio di non discriminazione" e ai "criteri di computo". In tale ultimo caso i lavoratori in mobilità interessati - computabili quindi ai fini di cui all'art. 35 della L. n. 300/1970 secondo "il numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell'effettiva durata dei loro rapporti di lavoro", ai sensi della più recente formulazione dell'art. 8 da parte dell'art. 12 della L. n. 97/2013 (in vigore dal 4 settembre 2013) - sono esclusivamente quelli assunti a partire dall'entrata in vigore della legge di conversione e quindi a far data dal 23 agosto u.s. (2013,ndr)

In pratica, come sintetizzato da EUFRANIO MASSI, in un articolo del Luglio 2015 su Ebook nr. 2 Generazione Vincente Blog, anche per coordinare la fattispecie con i sopravvenuti mutamenti del DL 34/2014 e del D.lgs. 81 cit., i rapporti a termine con personale in mobilità:

1) Non rientrano nella sommatoria dei 36 mesi;
2) Non rientrano nella disciplina delle proroghe;
3) Non rientrano nell’osservanza degli intervalli per i “rinnovi” (10/20 gg. per rapporti, rispettivamente non superiori o superiori a 6 mesi);
4) Non rientrano nei limiti quantitativi di legge o CCNL;
5) Non rientrano nella disciplina del diritto di precedenza ex. art. 24 D.lgs. 81/2015, salve le previsioni di CCNL, salve le speciali “precedenze” e tutele previste dalla legge per il lavoratore in mobilità. A disposizione per approfondimenti

LAVORO A TEMPO DETERMINATO, SE LA PROROGA NON RISULTA DA ATTO SCRITTO, COSA SUCCEDE?

Caso: Nell’Azienda Alfa Srl, nel corso di un’Ispezione, l’INPS rileva che Tizio, trovato intento al lavoro, pur qualificato dal Datore “lavoratore a termine prorogato”, non ha firmato alcun atto di proroga. Agli atti, esiste solo il “primo” contratto a termine, e la comunicazione UNILAV della proroga (nei termini di 5 gg.). Può evitare l’Azienda la trasformazione forzosa del rapporto in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato?

Risposta: Certamente.
L’art. 21.1°comma D.lgs. 81/2015, nel richiedere “il consenso del lavoratore”, ai fini della proroga ricalca la risalente disposizione che già fu dell’art. 2 l. 230/1962. Nel vigore di questa norma, si formò la consolidata giurisprudenza che argomentava come non obbligatoria (nemmeno ad substantiam) la forma scritta ai fini della proroga del rapporto a tempo determinato, interpretando correlativamente il riferimento al “consenso del Lavoratore”, come possibilità che la proroga del rapporto a termine sia perfezionata “oralmente” (Cass. 6305/1988; Cass. 4360/1986) o per “fatti concludenti” (Cass. 4939/90). Non essendo mai mutata la disciplina della proroga sul punto, né nel vigore del D.lgs. 368/01, né nel vigore del DL 34/2014, né nel vigore del D.lgs. 81/2015, si deve ritenere perfettamente consolidata e vigente questa giurisprudenza.
Naturalmente, è sempre meglio che l'azienda fissi per scritto
la convenzione di proroga col Dipendente, per evitare qualsiasi tipo di fastidio.

lunedì 9 novembre 2015

VIETATO ASSUMERE A TERMINE PER SOSTITUIRE LAVORATORI IN MOBILITA' LICENZIATI, UN CASO

Caso:
Tra i licenziati ex. l. 223/91 della Pulimpresa Srl (Impresa di pulizie immaginaria), ci sono Tizio, Caio e Sempronio, rispettivamente tre ex-Autisti. Attraverso il Sindacato, questi Ex-Dipendenti contestano la riassunzione a termine di altri tre Dipendenti, adibiti alle stesse identiche mansioni. Che ne è degli interessi di Tizio, Caio, Sempronio? E dei tre nuovi dipendenti assunti a tempo determinato?

Risposta:
Il caso si presenta assai intricato. La legge innanzitutto (art. 20) garantisce l’immediata trasformazione del rapporto a termine in rapporto a tempo determinato degli ultimi assunti (art. 20.2°comma D.lgs. 81/2015).
La legge, da questo punto di vista, impedisce che l’Azienda “che ha cercato di fare la furba” possa avvantaggiarsi della propria furberia. Ciò posto, però, gli interrogativi e i dubbi fioccano copiosi: non sarebbe meglio garantire la riassunzione dei Dipendenti licenziati? Tanto più che l’invalidità delle assunzioni a termine non può non colpire per relationem (per connessione necessaria) anche la procedura di licenziamento collettivo, di cui può essere dichiarata l’inefficacia per “simulazione”, ovvero l’invalidità per “frode alla legge” (la successiva riassunzione a termine per mansioni che avrebbero dovuto essere cancellate dovrebbe costituire la prova quasi certa della simulazione o della frode!).
In questi casi, il “licenziamento collettivo” si converte automaticamente in “licenziamento individuale”: licenziamento che, a bene vedere, dovrebbe essere nullo a sua volta, perchè simulato, o posto in essere con disegno di frode alla legge.
Stando così le cose, Tizio, Caio e Sempronio hanno diritto alla piena reintegra nel posto di lavoro, ai sensi dell’art. 2 D.lgs. 23/2015 (tutele crescenti), che, indipendentemente dai requisiti dimensionali dell’impresa, connettono la reintegra (vecchia edizione ex. art. 18 l. 300/70) alla “nullità” del licenziamento secondo la legge (ovvero il “diritto comune”: simulazione, frode).
A disposizione per aggiornamenti

LAVORO A TEMPO DETERMINATO, QUANDO È VIETATO-FLASH

L’art. 20 D.lgs. 81/2015 vieta l’ assunzione a termine nei seguenti casi: a) Sostituzione lavoratori in sciopero; b) Presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ex. artt. 4 e 24 l. 223/91 di lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisca l’assunzione a termine (fanno eccezione: le assunzioni sostitutive, in liste di mobilità e per rapporti di durata iniziale non superiore a 3 mesi*); c) Presso Unità produttive nelle quali sia operante una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario, in regime di CIG (anche straordinaria, anche “in deroga”), che interessi lavoratori adibiti a mansioni cui si riferisca il contratto a termine*; d) In caso di mancata valutazione dei rischi. Trattasi di casistica di molto complessa definizione, che abbisogna di specifici chiarimenti e approfondimenti successivi. In ogni caso, la violazione di tali divieti comporta la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro (art. 20.2°comma D.lgs. 81/2015). A disposizione per approfondimenti

giovedì 5 novembre 2015

RAPPORTO A TERMINE, DIRITTO DI PRECEDENZA E MANSIONI: SEGNALAZIONE DI UN CASO PROBLEMATICO

Con riguardo alle recenti innovazioni nella contrattualistica a termine, introdotte dal D.lgs. 81/2015, si segnala un rilevante problema di coordinamento tra le nuove disposizioni che ex. art. 2103 Codice Civile regolano l’inquadramento dei dipendenti, e le disposizioni ex. art. 24 D.lgs. 81 che regolano l’esercizio del “diritto di precedenza” dei lavoratori a termine.
L’art. 24.1°comma D.lgs 81 cit., infatti, vincola l’esercizio del diritto di precedenza all’assunzione a tempo indeterminato del Lavoratore già a termine, per l’espletamento delle “stesse mansioni”.
L’impressione è che, in parte qua, i testi legislativi abbiano codificato un diritto all’inquadramento del Dipendente “speciale” rispetto alla nuova previsione ex. art. 2103 Codice Civile.
Balza all’occhio, al riguardo, l’omologa disposizione prevista per il part time (diritto di precedenza alla trasformazione oraria full time): in questo caso, il “diritto di precedenza” del Dipendente è vincolato all’ “espletamento delle stesse mansioni”, ovvero a “mansioni di pari livello e categoria legale”: una dizione certo più in linea con la riforma dell’art. 2103 Codice Civile, e che pare proprio ammettere un inquadramento del Lavoratore più coerente con il nuovo regime di inquadramento.
Nel caso, però, dell’art. 24.1°comma D.lgs. 81, l’inquadramento pare ancorato a regole spiccatamente “speciali” e diverse da quelle generali ex. art. 2103 Codice Civile.
E c’è anche qualcosa in più: nel caso del rapporto a termine, la norma prima “fotografa” la mansione esercitata dal Dipendente, poi, in caso di esercizio del diritto di precedenza, vincola il Datore ad assumere il Dipendente per “quella” mansione, non un’altra. Diversa, come visto, è la previsione del part time, dove al Datore è consentito un margine discrezionale di scelta, senza restare vincolato alla mansione esercitata dal Lavoratore al momento dell’esercizio del diritto di precedenza.
Nel caso del rapporto a termine, il diritto del Dipendente, quindi, non pare riguardare solo l’assunzione a tempo indeterminato, ma anche l’inquadramento.
Essendo tale inquadramento predeterminato dalla legge, in evidente “deroga” all’art. 2103 Codice Civile, la sua modificazione dovrebbe avvenire (è coerente ritenerlo) solo con le procedure di “demansionamento in deroga” consentite dal Jobs Act. Non così, nel rapporto part time, dove la dizione legislativa utilizzata pare ammettere un inquadramento del Dipendente, a “maglie larghe”, secondo la nuova disciplina. Questo aspetto, evidentemente, va più approfonditamente disaminato nei mesi prossimi, auspicabilmente in sede di Interpello ministeriale. A disposizione per approfondimenti

COMMENTO A CASSAZIONE 22355/2015, USO DI INTERNET E POSTA ELETTRONICA AZIENDALE

Nel sito web ufficiale dei Consulenti del Lavoro è contenuta una notizia di questo genere, in relazione ad una certa sentenza di Cassazione:

E’ stato ritenuto illegittimo il licenziamento come sanzione disciplinare del lavoratore che utilizzi per finalità personali internet e posta elettronica, oltre che strumenti elettronici messi a disposizione dell’azienda per l’attività lavorativa. A renderlo noto è la Corte di Cassazione, con sentenza n. 22353 del 2 novembre 2015, che ha ritenuto eccessiva questa misura intimata ad un dipendente responsabile di tali azioni durante l’orario di lavoro. Una condizione essenziale per conservare il posto di lavoro – specifica la Corte – è che l’utilizzo per fini personali della navigazione internet e dell’uso della posta elettronica non abbiano determinato una effettiva sottrazione dei tempo all’attività di lavoro, né blocchi o danni per l’attività produttiva”.

A nostro modesto giudizio, sarebbe stato tecnicamente più esatto (oltrechè rispettoso del contenuto effettivo della sentenza) una comunicazione di questo tenore:

“E’ stato ritenuto illegittimo il licenziamento come sanzione disciplinare del lavoratore che utilizzi per finalità personali internet e posta elettronica, oltre che strumenti elettronici messi a disposizione dell’azienda per l’attività lavorativa [in quanto riconducibile a infrazione disciplinare per la quale il CCNL prevedeva sanzione conservativa, rispetto alla quale l’Azienda non sia riuscita a provare quella maggiore gravità, quel maggiore disvalore che avrebbe giustificato la misura del licenziamento disciplinare, Nota nostra]. A renderlo noto è la Corte di Cassazione, con sentenza n. 22353 del 2 novembre 2015, che ha ritenuto eccessiva questa misura intimata ad un dipendente responsabile di tali azioni durante l’orario di lavoro. [Nel caso di specie, non risulta efficacemente provato] – specifica la Corte –… che l’utilizzo per fini personali della navigazione internet e dell’uso della posta elettronica [abbia] determinato una effettiva sottrazione dei tempo all’attività di lavoro, né blocchi o danni per l’attività produttiva”.

Queste puntualizzazioni sarebbero state utili per trasmettere un’informazione più aderente alla sentenza: che ha escluso il licenziamento per l’uso di Internet sul posto di lavoro, solo per motivi squisitamente “interni” al processo e all’evoluzione processuale: la Cassazione, infatti, nel caso di specie, quale Corte di Legittimità (e non di riesame del merito del processo) non aveva istituzionalmente i poteri per rovesciare l’esito di una CTU –Consulenza Tecnica d’Ufficio- che, non riuscendo a provare con certezza i tempi di permanenza nel web del Dipendente (verosimilmente, per problematiche legate ai cd “controlli a distanza” ex. art. 4 l. 300/70), ha concorso alla “assoluzione parziale” del Dipendente medesimo. Laddove, al contrario, la CTU fosse riuscita ad essere più esauriente, con molta probabilità, l’esito del processo sarebbe stato diverso …
A disposizione per approfondimenti

mercoledì 4 novembre 2015

TRASFERTE E ORE DI VIAGGIO- LE NOVITA' DELLA GIURISPRUDENZA COMUNITARIA

Riallacciandoci a ns risalenti post dedicati al problema del conteggio del tempo di viaggio dal proprio domicilio come orario di lavoro, siamo a trattare del particolare caso dell’Installatore, le cui mansioni consistono nell’installazione di impianti tecnologici, delle più svariate tecnologie presso il Cliente.
Una recente sentenza della Corte di Giustizia CE del 10/9/2015 C-266/14 (occasionata da una vertenza sulla legislazione spagnola) ha dichiarato valorizzabile (come orario di lavoro e ai fini della corrente retribuibilità) il tempo di percorrenza con l’automezzo (aziendale) impiegato da tale Lavoratore dal proprio domicilio al primo Cliente e nel rientro a fine giornata.
Il suddetto tempo deve intendersi lavoro vero e proprio, quindi, retribuito con retribuzione corrente, e non si considera (agli effetti economici) trasferta (vedi Cass. 8293/2015). In questo caso, però, si apre il non semplice problema del conteggio delle indennità connesse agli spostamenti, che, ex art. 51 TUIR sarebbero imponibili per il 50% (regola speciale fiscale per i “trasfertisti”: una norma, ricordiamo, dalla discussa applicabilità, non essendo stato del tutto perfezionato l’iter attuativo.
Aldilà di queste specifiche problematiche fiscali e previdenziali, la sentenza europea, pur occasionata dalla legislazione spagnola, si pronuncia su un punto di normativa uniforme, l’art. 2, punto 1, dir. 2003/88, di per sè, certamente estensibile anche in Italia in forza del richiamo alla normativa interna (D.lgs. 66/2003) di recepimento della direttiva UE sull’orario di lavoro. In questo senso, e a questi fini, devono certamente considerarsi ancora valide le indicazioni fornite dal Ministero del Lavoro con Interpello nr. 15/2010, nei termini sotto richiamati e sviluppati.
A disposizione per approfondimenti

EQUITALIA, LA NUOVA DILAZIONE-PRIME NOTE

Qui di seguito, un primo, ancora sintetico, resoconto delle disposizioni del D.lgs. 159/2015 relative alle dilazioni Equitalia.
A) DILAZIONI CONCESSE A PARTIRE DAL 22/10/2015
(Art. 19.3°comma DPR 602/1973, come modificato dal D.lgs. 159/2015):
a) Decadenza beneficio rateazione: E’ prevista la decadenza in caso di mancato pagamento di 5 rate, anche non consecutive (anziché 8, come previsto precedentemente);
b) Riammissione alla rateazione: può essere riammesso alla rateazione il Contribuente decaduto, che, alla data di presentazione dell’istanza, abbia saldato le rate scadute alla stessa data. Il nuovo piano di rateazione può essere ripartito nel numero massimo di rate non ancora scadute a tale data.

B) DILAZIONI PER I CONTRIBUENTI DECADUTI NEGLI ULTIMI DUE ANNI-NORMA TRANSITORIA (Art. 15.7°comma D.lgs. 159/2015):
Ai Contribuenti che siano decaduti dal piano di rateazione, tra il 22/10/2013 e il 21/10/2015, può essere riconosciuta una nuova dilazione delle somme già dovute e non versate, unitamente a quelle da versare. A tal fine, i Contribuenti dovranno presentare apposita istanza (che sarà messa a disposizione da Equitalia), con Raccomandata A/R oppure a mano, presso uno degli Sportelli dell’Agente della Riscossione competente per territorio.
La domanda dovrà essere presentata entro e non oltre il 21/11/2015.

La nuova dilazione può essere chiesta per un massimo di 72 rate mensili, non prorogabili.
E’ prevista la decadenza dal beneficio della rateazione con il mancato pagamento di 2 rate, anche non consecutive.
E’ noto che una delle fonti principali con cui i Contribuenti fanno fronte ai propri impegni finanziari sono gli stipendi, ed è altrettanto noto che è in funzione della percezione di un trattamento periodico di retribuzione che viene spesso decisa la rateazione di un Debito Equitalia.
Ricordiamo che, in tempi recentissimi, sono state introdotte nuove disposizioni sul pignoramento dello stipendio, rispetto alle quali occorrerà procedere al coordinamento delle nuove norme sulla dilazione Equitalia.
Ricordiamo, altresì, che le nuove norme investono alcuni aspetti dell’art. 19 DPR 602/73 sulla dilazione; non tutto l’art. 19 è stato investito dal processo di riforma. Sarà nostra cura, pertanto, procedere ad un ulteriore resoconto per evidenziare ciò che muta e ciò che resta invariato dell’art. 19 citato.
A disposizione

martedì 3 novembre 2015

LAVORO A TEMPO DETERMINATO, LE NUOVE REGOLE PER L'IMPUGNAZIONE GIUDIZIALE E STRAGIUDIZIALE

L'impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire, , con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso, entro centoventi giorni dalla cessazione del singolo contratto. Trova altresì applicazione il secondo comma del suddetto articolo 6. L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo. Nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge n. 604 del 1966. La predetta indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro. In presenza di contratti collettivi che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell'indennità fissata dal comma 2 è ridotto alla metà. Restiamo a disposizione per aggiornamenti, particolarmente necessari in considerazione della circostanza che sussistono ancora molti dubbi sui termini dell’abrogazione della precedente disposizione sulle impugnazioni contenuta nell’art. 32 l. 183/2010 e sul coordinamento delle disposizioni eventualmente residuate.